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Venerdì, 27 marzo 2020

Covid-19, Valle Camonica: storia di un medico contagiato e dell'odissea della sua famiglia

Valle Camonica - Riceviamo e pubblichiamo una lettera inviataci da una famiglia residente in Valle Camonica che racconta la storia di un medico-paziente e dei suoi congiunti, una tra le mille storie di gestione di Covid-19.


Ambulanza - Gdv"L’antefatto è semplice: un paziente contagiato, medico di base, in grado di diagnosticarsi i sintomi chiede di essere portato al Pronto Soccorso.


Giorno 1: al Pronto soccorso del più vicino ospedale viene fatta una Tac da cui si rileva una polmonite interstiziale bilaterale. I parametri non sono ottimali. Ma il tampone non si fa. Il malato viene riportato a casa. La febbre si alza e il medico-paziente, con la propria auto e il buon cuore di un collega coraggioso, rifà il viaggio verso il Pronto soccorso, certo che, analisi alla mano, verrà trattenuto. Qui si consuma un pesante misunderstanding coi medici di turno (forse anche perché di turni ininterrotti sulle spalle ne hanno più d’uno) e tra grida e insulti, il paziente viene rimandato a casa.


Giorno 3: i parenti si attivano: il tampone non c’è, ma si premurano di avvisare i luoghi di lavoro, i conoscenti, le autorità sanitarie del fatto di essere entrati in contatto con un caso molto probabilmente positivo . Qualcuno viene messo in mutua, qualcuno in sorveglianza attiva, qualcuno in… “niente”, perché secondo il protocollo, giustamente, senza tamponi non ci sono conseguenze.


Giorno 4: a forza di telefonate, il malato, che perde progressivamente forze, riesce a ricontattare i medici che lo hanno respinto in precedenza e finalmente arriva la risposta: un posto si è liberato, bisogna provvedere a chiamare un’ambulanza (privata) se si vuole evitare il contagio dei parenti e degli amici e tornare in ospedale; questa volta per un ricovero.


Da qui in poi: silenzio. Come sta il paziente? Respira da solo? Migliora? Peggiora? Necessita di qualcosa? Non lo sappiamo. Nella nostra storia, le comunicazione si interrompono per una settimana.


Si attiva una meravigliosa macchina della solidarietà: un’infermiera dell’ospedale dove si trova il paziente cerca di passare 1 minuto ogni qualche giorno a capire se necessiti di biancheria o altri generi di prima necessità, lo dice ad un parente in isolamento, che lo dice ai suoi contatti vicini, che frugano negli armadi, cercano nei pochi negozi ancora aperti, riempiono delle borse con oggetti più o meno necessari ma simbolici di vicinanza, appendono le borse al cancello del parente isolato, che ci aggiunge un asciugamano , un disegno di bambino, una frase affettuosa, le riappende al cancello e aspetta che la prodiga infermiera ripassi per andare al lavoro e consegni il pacco.


Siamo ancora al giorno 4: un altro membro della famiglia ha qualche malessere. “Sarà influenza”, prova a convincersi. Il giorno dopo ha la febbre e la tosse: “Avrò preso il virus?”, si domanda e si mette a letto con la mascherina e tutte le protezioni necessarie verso il resto dei suoi conviventi. Il giorno dopo ancora, il malato giovane e forte, ansima: la saturazione scende, la pressione arteriosa e i battiti cardiaci si alzano. Allora telefona a tutti i numeri deputati: dal numero verde alla guardia medica, dall’Ats al 112, fa presente di essere entrato in contatto con un paziente positivo (nel frattempo, al momento del ricovero il tampone si fa! Manca solo l’esito, ma è dato per scontato da tutti), chiede per favore che un medico vada a visitarlo. Nulla. Le linee telefoniche sono intasate, le ambulanze non sono disponibili, i medici non hanno l’attrezzatura protettiva adeguata.


Un medico arriva, diversi giorni dopo. Conferma i miglioramenti che piano piano, con una forza d’animo enorme, il malato si era già auto riconosciuto e forse impegnato per vedere: la saturazione è tornata buona, i battiti regolari, la debolezza passerà.

Il tampone, ovviamente, non si fa.


Giorno 9: il paziente ricoverato in ospedale riesce a chiamare casa dal suo telefono: “Trovate un’ambulanza che venga a prendermi perché mi dimettono”. La famiglia si attiva, l’ambulanza si trova e il medico paziente torna a casa dopo una settimana di cure e silenzio. Torna a casa con la febbre, con la saturazione dell’ossigeno a 88/100, non riesce a respirare bene. E ancora una volta amici e colleghi si mobilitano: procurano una bombola di ossigeno da centellinare, “che sono le ultime che abbiamo”, un condensatore, telefonano alla famiglia ogni poche ore per monitorare i parametri e avvisano: se la saturazione scende ancora si richiama il 118. Lo dicono loro. I colleghi, medici.


Nel frattempo le persone isolate, distanti eppure collegate da questi due casi sono le stesse: sono mogli, madri, sorelle, nuore, figlie e figlie che non sanno nulla di un malato ospedalizzato e non possono fare nulla per un malato terrorizzato e sofferente. Pregano, sperano, si telefonano, chiamano tutti i medici che conoscono, disegnano arcobaleni per distrarre i bambini, accendono candele foriere di speranza, si telefonano per piangere, per sentirsi meno sole, per darsi coraggio.


Giorno 10: l’Ats comunica l’esito del tampone del malato ospedalizzato e conferma l’isolamento (che oramai si riduce a soli 4 giorni) per tutti coloro che si erano autodenunciati. Quelli che non hanno avuto la stessa sensibilità...nulla, a piede libero. E speriamo bene.


Giorno 16: il paziente dimesso è a casa: attaccato alla bombola dell’ossigeno, al condensatore procurato ancora una volta da amici e colleghi, non riesce a parlare per poco più di una frase, non sta in piedi da solo, non mangia, non ha farmaci da prendere né indicazioni su come comportarsi, non ha forze subentrano altre patologie, ma sa che la malattia deve fare il suo corso. Dopotutto, lo hanno dimesso dall’ospedale. E’ un medico. Ha fiducia nei suoi colleghi, Aspetta di riprendersi con determinazione.


Giorno 20: il paziente giovane e allettato torna allettato. Sì, torna, perché per qualche giorno ha avuto l’illusione di stare meglio. Parametri buoni, febbre scomparsa, per la stanchezza basta aspettare. Ma la ripresa è tutt’altro che lineare. La saturazione e la pressione tornano a danzare isteriche, le forze stentano a ripresentarsi, o quanto meno a durare. Avrà la polmonite? Sarà in una lenta e altalenante fase di guarigione? O Forse no? No tampone, no certezze, non farmaci, non lastre, no tac, non visite mediche. I numeri verdi, l’azienda sanitaria locale, i medici di guardia...non li chiama neanche più. La risposta è sempre quella: se non hai la febbre, stai a letto. Poco importa se formalmente non sai cos’hai e se vivi chiuso in una stanza da 15 giorni, con i guanti e la mascherina sempre indosso, il saturimetro al dito e il termometro sotto al cuscino, padrone della tua casa solo per andare lentamente e instabilmente in bagno dopo esserti accertato che nessuno giri nella stessa area per mezz’ora buona.


La famiglia prega, disegna arcobaleni, dice ai bambini che andrà tutto per il meglio, gioisce dei minimi progressi, ringrazia l’Universo di non essersi ammalata per intero.


E legge. Legge le dichiarazioni dei politici locali, dei dirigenti sanitari, dei sindaci, che parlano di pazienti dimessi e quindi guariti, che parlano di efficienza del sistema, che parlano di numeri utili e protocolli da seguire. E soffre, davvero un po’ ci soffre. Perché se il danno, ovvero la sofferenza inimmaginabile, l’apprensione, la paura, il senso di impotenza di queste settimane è inevitabile… La beffa, quella forse sì. Abbiate pudore di chi sa come vanno le cose: dei medici, degli infermieri, dei malati e delle loro famiglie. Abbiate almeno pudore. Perché ogni plauso a come vanno bene le cose, ogni guarigione proclamata sulla stampa per pazienti che stanno ancor male (e fidatevi che stanno male), ogni protocollo che dovrebbe rassicurare la popolazione, quando sappiamo benissimo che nessuno è più in grado di seguire i protocolli...è una coltellata alla dignità di chi sopporta solo, silenzioso, speranzoso. Voi avete megafoni potenti per raccontare la vostra storia. Noi abbiamo solo le parole. Ma la parola, diceva Gorgia “è un sovrano dal corpo piccolissimo, che può fare cose potentissime”: per esempio raccontare la verità. Noi comunque non abbiamo alternativa al crederci: andrà tutto bene. Una grande famiglia".

Ultimo aggiornamento: 27/03/2020 10:37:28
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