Il libro di Vittore ci aiuta, in questi tempi non facili, a guardare al sacerdote dicendo semplicemente grazie, per la testimonianza di vita nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia.
Ricordo, quando ero bambino, che il nostro viceparroco ai campi scuola ci distribuiva la sera quei libretti che molti ricorderanno, della Elledici, con le storie dei testimoni della fede, conosciuti o no, perché li leggessimo, magari prima di addormentarci. Ovviamente ai campi-scuola non si era tutti tranquilli e sereni nelle camerate, ma quei libretti erano lì, anche solo con la copertina, a suggerirci qualcosa. Uno in particolare ci colpiva: la storia di don Cesare Bisognin, prete a 19 anni. Ordinato nel 1966 a tempi di record, grazie ad una dispensa di Paolo VI e la paternità del Cardinale di Torino Michele Pellegrino. Un seminarista malato, con il desiderio di servire comunque Dio con il sacerdozio, anche solo per un mese… come è stato. Un giovanissimo prete che dice: È un gran dono il sacerdozio. Ho solo paura di non essere capace di viverlo bene. Dillo ai giovani: vale la pena buttarsi per questa strada!
Quando ho letto, anche se un po’ velocemente, il libro di Vittore De Carli, ho pensato subito al bene che potrà fare, a tante persone, ai giovani, ma in modo particolare ai sacerdoti. Non vi nascondo il fatto che alcuni cappellani mi rivelano, non senza un po’ di meraviglia, che c’è un rapporto strano tra i preti e la malattia. Insieme a tante testimonianze belle, notano che a volte alcuni sacerdoti ricoverati vivono con grande fatica la malattia, lasciano la preghiera, non chiedono la comunione, a volte neanche dicono di essere preti. La nostra umanità si rivela nella debolezza dell’incomprensione, anche per noi ministri. C’è come in tutti una sorta di ribellione che ci fa pensare: “Ma come, proprio io, non ti servivo in mezzo alla gente, con la scarsità di preti e di vocazioni che c’è ora? Perché questo spreco, in un letto di ospedale?”. Anche per noi sacerdoti c’è bisogno di un percorso, di un accompagnamento, di un sostegno. E sapere che ci sono altri preti malati che hanno lottato e lottano, per vivere pienamente e nella Gioia il Vangelo anche in questo momento, è un dono grande. Diceva Giovanni Paolo II: “C’è un vangelo superiore, il vangelo della sofferenza”.
Le dodici storie raccontate saranno di grande aiuto. Lo sono state per me, facendomi ricordare come nell’anno prima di entrare in seminario, a 18 anni, ho attraversato anch’io un periodo non facile di malattia, che però mi ha insegnato tanto. Mi è venuto subito in mente l’episodio della moltiplicazione dei pani, quando Gesù, dopo che i cinquemila furono saziati, disse ai suoi discepoli: "Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto". Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d'orzo avanzati.
Dodici canestri pieni, come queste dodici storie. Pezzi di vita, pagine che trasudano del sapore del pane, della mensa di casa e dell’altare, avanzati perché nulla vada perduto, per sfamare ora tante altre persone che, attraverso la lettura possono saziarsi di Vangelo.
Don Francesco, un sorriso con le gambe storte, con un percorso di vita personale e familiare intenso, genuino: Oggi sono un sacerdote felice e sereno. Sono un sacerdote pieno di vitalità e di energia, che lotta e si impegna per annunciare il Vangelo.
Don Raffaele, cammina anche senza vedere, certo che Dio ha operato in lui un vero trapianto: l’amore apre gli occhi del cuore.
Don Francesco, sulla sedia a rotelle. Vi è stato costretto a causa di un tuffo, ma ora è lui a farci tuffare nell’oceano sconfinato dell’amore di Dio, accompagnandoci con il Salmo 40, musicato dagli U2, che dice: Ho sperato nel Signore. Mi ha tratto dalla fossa della morte... Mi ha messo sulla bocca un canto nuovo, lode al nostro Dio.
Don Andrea, 30 anni, malato di fibrosi cistica… Scriveva, prima del seminario: Io sono del parere che il Signore non sceglie solo tra i sani, ma anche tra gli ammalati, e con loro fa grandi cose. Per lui sono fondamentali le giornate mondiali della gioventù, tappe che hanno segnato il cammino della chiesa di questi ultimi trentacinque.
Un terribile incidente non ferma la parola di Dio che don Giorgio, su una sedia a rotelle, continua ad annunciare con forza, grato dell’esempio di testimonianza nella malattia di Giovanni Paolo II e il cardinale Martini. Anche lui porta un cesto ricolmo di pane.
Fra Francesco, inizia il suo calvario a Santa Chiara, ad Assisi, durante una messa. Lo sostiene la forza della fede della sua famiglia, di nonna Brigida, una persona semplice, dice, “che mi ha insegnato ad avere fiducia, perché Dio fa nuove tutte le cose. Per questo, consiglio agli ammalati di rimanere legati al Signore Gesù”.
Don Mario, malato di Sla, da cappellano raccontava ai malati ciò che ora sperimenta: “Gesù ha salvato il mondo morendo sulla croce. Fermo, inchiodato, non poteva muoversi, ma poteva parlare. Ho pensato che anch’io, con questa mia menomazione, non potevo smettere di essere sacerdote e che era il momento più importante di essere prete”.
Padre Silvio, in carrozzina, dice che l’incontro duro con la sofferenza spezza il guscio e libera il nostro io. È grazia grande incontrare Gesù, inchiodato sulla croce, fratello del nostro soffrire. Non avevo previsto, forse come tanti, la croce nella sua durezza. Ho capito che è la strada comune per crescere, proprio come il chicco di grano che muore per dare molto frutto.
La storia di don Maurizio, che conosciamo tutti, mi ha fatto riflettere molto. Parlando della sua depressione dice: Sono convinto che coloro che in questo momento soffrono di questo male misterioso potranno ricevere anche da questa testimonianza un pizzico di speranza. Chi sta pensando che sia inutile lottare ancora, può cambiare idea».
Don Claudio dice che le fragilità possono diventare “tabernacolo di Dio, un luogo dove Dio ci parla. Le nostre storie personali possono diventare spazio in cui riconosciamo il dono gratuito dell’amore di Dio.
Don Mario Galbiati, missionario via radio, innamorato di Maria, è chiamato a stare con lei sotto la croce.
L’ultimo ci precede nel Paradiso. Don Salvatore, dice, prima di morire: “Essere prete è bello! La “bellissima” e “graziosissima mano di Dio”, è una mano che «accarezza di giorno in giorno, come una mano materna, paterna e fa sentire quel suo Amore».
Sono stato parroco fino a due anni fa, prima di essere nominato vescovo, in una comunità nella periferia sud di Roma, fecondata da un prete romano reso disabile, in seguito ad un attentato. A novembre del 1996 un folle entra in chiesa e con una tanica di benzina dà fuoco a don Mario Torregrossa, 52 anni, parroco fondatore di san Carlo da Sezze ad Acilia. In ospedale gli danno cinque giorni di vita. Vivrà dodici anni, fino al 2008, su una sedia a rotelle, parroco felice in mezzo ai suoi giovani ed ai suoi poveri, insegnando a credere, sperare e amare. Ho potuto sperimentare la Grazia di chi lo ha conosciuto ed è stato edificato dalla sua testimonianza nel vivere la malattia, aiutato e sostenuto dalla sua famiglia parrocchiale.
Penso spesso al passaggio della seconda lettera ai Corinzi in cui l’apostolo parla di una spina nella sua carne, un’immagine che divide un po’ gli esegeti, tra chi tende a pensare ad una tentazione ricorrente e chi preferisce pensare ad un impedimento fisico di Paolo, una malattia. In ogni caso è un’immagine che ci riporta al cuore dell’esistenza umana vissuta nella fede: tutti sperimentiamo o prima o poi sperimenteremo, la debolezza, anche nel corpo. Tutto questo ci aiuterà a capire, confortati anche da dodici sacerdoti, che, quando saremo deboli, saremo forti, perché la condizione della nostra fragilità ci riporterà ad abbandonarci all’unico Forte, Dio, che ha scelto la debolezza perché ci ama da morire.
Oggi abbiamo un motivo in più per cantare il Magnificat".
Vescovo ausiliare di Roma e delegato per la Pastorale Sanitaria