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Festival dell'economia a Trento: la lezione del professor Viroli su "Nazionalismo e patriottismo"

Trento - Un approfondimento molto seguito al Festival dell'economia di Trento è stato quello su "Nazionalismo e patriottismo".


Maurizio Viroli (nella foto), docente alle università di Princeton, Austin e Lugano, è intervenuto sulle origini del nazionalismo, introdotto dal giornalista Carlo Martinelli, ha affrontato la distinzione fra l'idea di patria, intesa come una comunità di cittadini "liberi", contrapposta ad un potere assoluto ed arbitrario, di qualsivoglia origine esso sia, e l'idea di nazione, intesa invece come una comunità culturalmente omogenea che condivide lingue radici e visioni comuni e sovente si rafforza attraverso la lotta contro le altre nazioni. I nazionalismi odierni, anche con le loro differenze, ad esempio quella fra Macron e Trump, partono da qui.


Professor ViroliLE ORIGINI - Alle origini del nazionalismo vi è l'idea di Herder di un popolo che si riconosce in comuni radici e condivide una comune visione del futuro. Per Rousseau e i "patrioti" che verranno dopo di lui, come il nostro Mazzini, a fondare la comunità nazionale è invece la condivisione di un comune anelito alla libertà, che si traduce nello sviluppo delle virtù civili implicite nel concetto di cittadinanza e finanche nella Costituzione italiana. Da un lato, il nazionalismo può condurre all'imperialismo, al razzismo, al lager. Dall'altro, una corretta idea di patriottismo può favorire la costruzione di una società autenticamente libera e democratica. Coltivare un sano patriottismo rappresenta, in questo senso, anche un antidoto importante proprio al nazionalismo e alle sue derive.


NAZIONALISMO - Quando è stata usata la parola nazionalismo per la prima volta? Il primo ad usare questa espressione è stato Herder, nel 1774, quindi prima della stessa Rivoluzione francese. L'assunto di partenza era che i popoli disprezzano gli altri popoli, potremmo dire fin dalle origini dell'umanità. I pastori disprezzano i coltivatori e viceversa, e così accade per i popoli "moderni", che temono o disprezzano chi vive al di là dei propri confini. Il nazionalismo crea un'identità nazionale; è un pregiudizio, ma il suo carattere è intrinsecamente "buono". L'identità, lo spirito nazionale, si basa innanzitutto sulla lingua, e più in generale su un mix ci letteratura, sapere scientifico, religione, memorie e così via. Così intesa, l'identità genera felicità. I popoli anche possiedono una nazione sono più felici di coloro che ne sono privi. Ed ancora: per Herder Dio stesso non vuole che le nazioni si mescolino, anzi, desidera che conservino la propria identità, a partire dalla lingua. Vivere una vita piena e soddisfacente significa quindi preservare la propria identità culturale e linguistica della propria nazione, anche se Herder respinge ogni tentazione espansionista, imperialista, aggressiva, che si sarebbe fatta strada più tardi proprio a partire dai germi del nazionalismo. Ma soprattutto, Herder allontanava da sé il cosmopolitismo di matrice illuminista. Il suo bersaglio era chiunque si definisse "cittadino del mondo" (da Lessing a Goethe).


PATRIA E LIBERTA' - Rousseau sosteneva invece che non esiste patria senza libertà. e quindi virtù civili e partecipazione alla vita pubblica. Siamo qui alle origini del "patriottismo repubblicano". Per Herder la forma repubblicana è solo una delle forme che la patria può assumere. ma ci si può sentire nella propria patria anche sotto un monarca assoluto, uno zar. Il patriota di Rousseau, al contrario, non vuole solamente una nazione, vuole una nazione illuminata dalla ragione, una patria democratica. Ne consegue che per un nazionalista la cosa peggiore che può succedere è essere privato della propria nazione e delle proprie radici (linguistiche, storiche e così via). Un patriota invece aspira ad una comunità nazionale di uomini liberi, attivi e partecipi. Da qui all'esistenza di patrioti che detestano il nazionalismo (come Mazzini) e di nazionalisti che detestano i patrioti (come il fondatore del nazionalismo italiano, Alfredo Rocco, che per primo pone l'equivalenza fra nazione e razza, ripreso poi da Giovanni Gentile, che teorizza l'affermazione della patria attraverso la lotta, la guerra, contro le altre nazioni).


Quale altra regola generale possiamo trarre da tutto questo? Ad esempio che più una persona è "piccola", indifesa, svantaggiata, povera, più desidera sentirsi parte di una nazione grande, potente.

Ciò spiega perché il nazionalismo ha fatto sempre tanta presa sulle classi popolari, come sosteneva ad esempio Distraeli, per il quale anche l'operaio inglese si sentiva a buon diritto parte del grande Impero britannico e respingeva le lusinghe del cosmopolitismo (nonché, aggiungiamo, dell'internazionalismo).


LA LEZIONE - L'insegnamento più nobile a cui possiamo forse attingere, secondo Viroli, è forse quello di Carlo Rosselli, per il quale la patria è ciò che accomuna tutti gli uomini liberi, che combattono per affermare la propria libertà. L'art. 52 della Costituzione italiana afferma che la difesa della patria è un dovere sacro per il cittadino. Ma il legislatore sottintendeva che la patria di cui si parla qui nasce dalla sconfitta del fascismo, è una patria di uomini liberi che desiderano essere liberi. Ma attenzione: contro le conseguenze nefaste del nazionalismo non basta alzare la bandiera del cosmopolitismo. Il vero antidoto al linguaggio del nazionalismo è quello di un patriottismo che non disgiunge mai l'idea di patria dalle virtù civili e democratiche, e non trascura la dimensione locale, quella dove ognuno risiede e vive. "Se lasciate la vostra terra, se andate in America o in India potrete fare ben poco. Bisogna dare il proprio contributo all'umanità partendo dalle nostre patrie. Chi ha parlato in epoca recente di coltivare un corretto amor di patria? Il presidente Ciampi. Nelle sue parole una pedagogia civica che dobbiamo recuperare e coltivare".


L'INTERVENTO DI PIERO STANIG


La reazione dei nazionalismi davanti alle democrazie che non sanno più rispondere alle sfide della globalizzazione
Le spinte, sempre più evidenti in questo terzo millennio, verso il nazionalismo e il protezionismo nascono anche dall’incapacità dei sistemi democratici di far fronte alle conseguenze della globalizzazione. Nell’incontro di questa mattina al Festival, Piero Stanig, assistant professor di Scienza Politica all’Università Bocconi di Milano, ha evidenziato la mancanza di risposte concrete verso i soggetti che hanno subito e continuano a subire le conseguenze del libero mercato. Solo una politica di compensazione dei perdenti, sempre più difficile da attuare anche in Europa, potrà evitare quei processi di chiusura che attraversano le società occidentali e non solo.


L'analisi di Piero Stanig, che ha toccato corsi e ricorsi storici, ha preso le mosse dalle diverse ondate di globalizzazione come la penultima tra la fine del XIX secolo e i primi decenni del XX. Una fase, iniziata 1860, di scambi e di prosperità fatta di accordi e di diminuzione dei dazi fra nazioni, aiutata anche dall'invenzione del telegrafo. Ma la reazione a quel processo portò ben presto al protezionismo, a barriere commerciali, all'autarchia e a processi di chiusura che sfociarono nella tragedia della Prima Guerra Mondiale. Uno schema che rischia di riproporsi in maniera drammatica anche nel nostro presente: "Se due economie diverse incominciano a commerciare fra loro - ha sottolineato Stanig - valorizzano reciprocamente i loro settori migliori, ma quelli più deboli di fatto implodono. Per fare in modo che il libero commercio porti ad un miglioramento paritetico è necessaria quindi quella che possiamo definire come "compensazione dei perdenti". Una compensazione alla quale dovrebbero rispondere i singoli governi ma che di fatto non c'è stata, anche a causa delle crisi del debito del 2008, causando un crescente malcontento nelle classi medie".


Per l'opinione pubblica la globalizzazione non è solo commercio ma anche movimento di persone e consumi culturali: fenomeni che per molti sono sinonimo di minaccia della propria identità e la conseguenze portano a spinte nazionalista e protezionista con la chiusura dei confini. "Nessun Paese – ha evidenziato il politologo – è stato capace di avviare strumenti di compensazione realmente efficaci e la reazione ostile della gente non è stata solo verso i singoli governanti ma anche nei confronti del sistema democratico in generale". In questo contesto si inserisce il processo dei movimenti di capitale con la difficoltà sempre maggiore di tassare i profitti delle multinazionali: "Il 40% di questi – ha detto Piero Stanig - va in paradisi fiscali e chi ci rimette di più sono proprio i Paesi dell'Unione Europea costretti di conseguenza ad aumentare il peso della tassazione sul lavoro creando ulteriori malumori". Un pericoloso circolo vizioso quindi che spesso porta a quel nazionalismo economico foriero di protezionismo, bassa tassazione, sul modello di Trump negli Stati Uniti o della flat tax, accompagnati in molti casi anche da una forte retorica nazionalista.

Ultimo aggiornamento: 31/05/2019 23:31:06
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