LECCO - In
Lombardia l'idroelettrico è
strategico per la transizione energetica. Infatti, la sicurezza degli
accumuli energetici costituiti dagli invasi idroelettrici integra e stabilizza
il crescente contributo delle energie rinnovabili: a differenza del fotovoltaico,
la programmabilità della generazione idroelettrica legata alla disponibilità di invasi e ai ripompaggi (la risalita in quota di volumi di acqua utilizzando l’energia prodotta in eccesso nei momenti di picco) è un
potente fattore abilitante, insieme agli
accumuli elettrochimici e alla crescita dell’
efficienza nell’utilizzo finale, per la crescita della quota rinnovabile nella generazione elettrica, ed è dunque
un acceleratore della transizione energetica.

L’idroelettrico ha rappresentato, per decenni,
l’asset energetico che ha consentito alla Lombardia di correre più di altre regioni nello sviluppo economico e industriale (fino agli anni ‘50, prima della ascesa delle centrali a fonti fossili, le centrali idroelettriche producevano la quasi totalità dell’elettricità in Italia), e ancora oggi è
elemento irrinunciabile del sistema energetico regionale.
C’è un però: se in passato esisteva
un patto obbligatorio tra i gestori energetici e il territorio, che consisteva nei grandi investimenti attuati,
oggi questo patto è venuto in parte meno. Il valore dell’energia generata si traduce in profitti per le società energetiche spesso maggiori della quota di valore lasciata al territorio, che invece paga i costi ambientali, rappresentati dall’
artificializzazione e dall’interruzione di continuità dei corsi d’acqua, dalla perturbazione del trasporto solido, dagli effetti sulla biodiversità e sui popolamenti ittici, oltre che dal conflitto sulla risorsa idrica, in particolare per gli usi irrigui, che si acuisce nei sempre più frequenti periodi di scarsità idrica.
Criticità queste presenti in diversi territori, ma per le quali
esistono risposte concrete,
grazie alle conoscenze e alle tecnologie oggi disponibili, come dimostrano diverse buone pratiche di gestione presenti a livello nazionale. L’urgenza di risolvere questa criticità è dettata non solo da questioni ambientali,
a partire dalla crisi climatica in corso, ma anche dal raggiungimento degli obiettivi su biodiversità e tutela degli ecosistemi acquatici fissati dalle direttive europee recepite anche nel nostro Paese.
C’è poi il
capitolo sicurezza. L’energia idroelettrica è quella che determina i maggiori
rischi di incidenti potenzialmente molto gravi, legati in particolare ai grandi invasi che spesso
incombono su valli molto popolate. Se in Italia le dighe sono molto attentamente monitorate da uno specifico dipartimento del Ministero delle Infrastrutture, occorre considerare che
la diga è parte di un sistema molto più dinamico e complesso, formato dai versanti e dalla loro geologia, dai sedimenti trasportati e anche dal sistema di
opere accessorie, che non sono altrettanto monitorati pur essendo una fonte rilevante di rischi: basti pensare che
solo in provincia di Sondrio ci sono ben 500 km di canalizzazioni d’alta quota, che trasportano enormi portate d’acqua da una valle all’altra, e che a loro volta poggiano su versanti non sempre stabili.
Il tema della sicurezza è rilevante parlando di dighe che hanno
un’età media di 82 anni, molto superiore al dato nazionale, e quindi sicuramente bisognose di investimenti. Un terzo di tutte le grandi dighe lombarde sono prossime o hanno superato il secolo d’età, e potrebbero richiedere importanti interventi per la messa in sicurezza.
“La
governance è la nota dolente del sistema,”
commenta Damiano Di Simine, Responsabile scientifico di Legambiente Lombardia.