Chiavenna - E' stata beatificata suor Maria Laura Mainetti - al secolo Teresina Elsa - religiosa delle Figlie della Croce uccisa 21 anni fa da tre ragazze, allora minorenni. Nel pomeriggio allo stadio comunale di Chiavenna (Sondrio) si è svolta la celebrazione presieduta in rappresentanza di Papa Francesco dal cardinale Marcello Semeraro, prefetto per le Cause dei Santi, che ha pronunciato la formula di beatificazione.
Presenti il vescovo di Como, monsignor Oscar Cantoni, quindi vescovi, sacerdoti, in particolare monsignor Ambrogio Balatti, arciprete di Chiavenna, le autorità civili e militari e oltre 2.500 persone delle comunità parrocchiali della Valtellina e della diocesi comense. Suor Laura Mainetti (nella foto) mentre veniva colpita, chiedeva a Dio di perdonarle. Il martirio di suor Mainetti è stato riconosciuto da Papa Francesco il 19 giugno 2020 perché compiuto "in odium fidei". La cerimonia è iniziata alle 16 e si è conclusa due ore dopo, significativo il dono - un cesto di prodotto locali, tra cui la bresaola - che monsignor Balatti ha offerto a nome della comunità al cardinale Marcello Semeraro per condividerle con papa Francesco. Durante il rito di beatificazione, dopo la petizione del vescovo di Como è stata data lettura dalla postulatrice, Francesca Consolini.
OMELIA DEL CARDINALE SEMERARO
"Parlando della comune professione perpetua tra le «Figlie della Croce», una consorella della nostra Beata ha ricordato che a tutte loro fu proposto di scrivere in un bigliettino la grazia che ciascuna domandava al Signore; riferiva pure che ella scrisse: «La vera carità» (cf. Summarium, Doc. 32, 282). L’espressione vera caritas è tradizionale e vi ricorse anche san Tommaso per ricordare ch
e consiste nell’amare Dio più di se stessi e il prossimo come se stessi (cf. Mc 12,29-30) ed è l’opposto dell’amore di sé.
Questa medesima espressione fu molto cara a san Paolo VI, il quale l’uso in diverse occasioni; una volta, in una forma che potremmo ritenere adatta per la nostra circostanza: «Se davvero la nostra carità tende a imitare (non possiamo mai dire: eguagliare!) quella sconfinata e divina di Gesù, Gesù è rappresentato, Gesù è presente. La nostra carità diventa segno; segno di Cristo. Figli carissimi! Abbiamo noi sotto gli occhi simili segni di Cristo? Abbiamo noi nella Chiesa fatti caritativi, che ci fanno intravedere la sua presenza fra noi? La Chiesa è ancor oggi convalidata nel suo possesso di Cristo dalla carità? Quella carità fondata sull’amor di Dio, quella carità che risolve tutti i contrasti della convivenza umana, quella carità, che si dona senza limiti e senza compenso? Sì, sì, diletti Figli di questa santa Chiesa cattolica; ella è tutta lucente di tali segni, di tali testimonianze! Aprite gli occhi e osservate quante luci di quella carità irradiano dal suo mantello; dal suo abito storico e concreto, vogliamo dire, un abito non tutto egualmente splendido e nuovo, un abito antico e tanto umano, che sempre ha bisogno d’essere riparato e rinnovato (come ha cercato di fare il Concilio), ma tutto smaltato dalle gemme scintillanti di quella presenza di Cristo, che la vera carità chiama ancora fra noi. Osservate quante vocazioni di uomini e di donne ancor oggi immolano vite giovani e fiorenti all’esercizio e alla testimonianza della carità» (Udienza del 9 novembre 1966). La beata Maria Laura Mainetti, che invocò dal Signore il dono della «vera carità», è una di queste testimoni. Anzi, è martire!
L’espressione vera caritas – lo sappiamo – è presente nella Liturgia della Messa vespertina in cena Domini. Dopo il gesto della lavanda dei piedi, che ricorda la carità di Cristo, e durante la processione dei fedeli che presentano, con il pane e il vino, i doni per i poveri, la Chiesa ci fa cantare un antico inno composto da Paolino d’Aquileia durante il quale si ripete l’antifona: Ubi caritas est vera, Deus ibi est. Uno dei versetti dice: «noi formiamo qui riuniti un solo corpo». Siamo, così, ricondotti al mistero dell’Eucaristia, cui è dedicata questa domenica.Mentre, però, ricordiamo ciò che il Signore fece coi suoi discepoli nell’Ultima
Cena, ci risuonano nella mente le sue parole: "Io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio» (Mc 14,25). Queste parole, che concludono il racconto evangelico, sono un annuncio di morte. Gesù parla di un digiuno e ogni digiuno raffigura una morte. Egli non si lascia sorprendere dagli eventi. È consapevole dei progetti di morte maturati contro di lui, ma non si lascia togliere la vita. Prima la dona ai suoi discepoli, la offre a loro spontaneamente. La sua consegna è racchiusa nei segni del pane e del vino e oggi raggiunge tutti noi che, uniti attorno alla stessa mensa, ripetiamo in memoria di lui quel che egli ha fatto «nella notte in cui veniva tradito".

Le parole di Gesù, però, non sono soltanto un congedo. Sono anche una promessa. Diremo, anzi, che dalle sue parole fiorisce la speranza. Le parole del Signore sono mani tese verso di noi; sono un abbraccio, che tutti ci raccoglie. Gesù parla di un «vino nuovo» – ossia di un banchetto festivo – bevuto nel regno di Dio. Ogni digiuno, in fin dei conti, vuol dire attendere e, per questo, rinvia a una festa. Il vangelo secondo Matteo contiene una piccola, ma importante esplicitazione. Scrive: «lo berrò nuovo con voi» (Mt 26,29). Chi mai banchetterebbe da solo? È confortante, allora, cogliere dalle labbra di Gesù questo: con voi! È molto bello il commento che ne ha lasciato Origene: «Non vuole bere da solo il vino nel Regno di Dio. Egli ci aspetta. Infatti così disse: finché non lo berrò con voi… Ci aspetta per bere del succo di questa vite. Di quale vite? Di quella di cui Egli era la figura» (In Leviticum VII, 3: PG 12, 479). Nelle parole di Gesù, insomma, Origene riconosce il desiderio che Egli ha di averci con Lui, per sempre.