Quando un uomo come Giannantonio Manci arriva alla scelta del suicidio per non fornire informazioni sotto tortura, io penso che sia il futuro di tutto un popolo - in questo caso il popolo trentino - a trarne beneficio in termini di giustizia e libertà.
Da presidente di una provincia autonoma, non posso nemmeno dimenticare come attraverso i contatti epistolari intercorsi tra uomini che militarono nella Resistenza si sia saputo dare un importante contributo alla costruzione di un autonomismo democratico di stampo federalista.
Certo, si tratta di tasselli autonomistici che già nell'immediato dopoguerra si sarebbero trovati a confrontarsi tra loro anche duramente. Ma è comunque anche grazie alla loro esistenza che in Trentino si consoliderà ulteriormente la nostra "costituzione non scritta" volta all'autogoverno, ben prima dell'Accordo De Gasperi-Gruber, e subito dopo il 1945 matureranno le condizioni per poter portare in piazza, con migliaia di persone, le istanze di autogoverno e di autonomia - anzitutto con l'esperienza dell'Asar, poi con il riconoscimento da parte della nostra Repubblica, con una scelta seria e positiva, della pratica dell’autogoverno per tutti questi anni".
Più in generale, senza la lotta antifascista non sarebbe stato mai possibile chiedere a tutti i trentini uno sforzo suppletivo per riconciliarsi con la propria storia secolare, coniugando libertà e autonomia e al tempo stesso costruendo una nuova convivenza con i sudtirolesi dopo lo sciagurato tentativo di italianizzazione imposto dal fascismo.
In tempi in cui il vento del nazionalismo torna ad alzarsi in tutta Europa è dunque importante, ma anzitutto giusto, ricordarci di questo passato. Alle famiglie, alla scuola, ai partiti, ai sindacati, alle associazioni, ma anzitutto alla coscienza civile di ciascuno di noi la responsabilità di far sì che simili sacrifici e tragedie non solo non siano dimenticati, ma diano gambe e cuore ai valori e alle istituzioni della società presente e futura".
L'intervento del sindaco Alessandro Andreatta: "Ogni anno, all'approssimarsi del 25 aprile, qualcuno propone di abolire la Festa della Liberazione, in quanto anniversario di parte e divisivo. Alla base di questo suggerimento, sta una convinzione: che le due fazioni in lotta, i fascisti e gli antifascisti, gli alleati di Hitler e i partigiani, siano in qualche modo equiparabili.
Che la Resistenza sia stata una sorta di scontro sportivo e che dunque qui, oggi, noi celebriamo non la vittoria dello stato di diritto sull'arbitrio, non il prevalere della convivenza pacifica sulla violenza e la paura, ma il trionfo di una squadra meritevole quasi quanto quella avversaria.
Il 25 aprile, come noi tutti sappiamo, fu ben altro. Perché l'Italia, negli anni del fascismo e in particolar modo dopo l'8 settembre del 1943, era una terra di nessuno sotto il profilo giuridico e morale.
L'unica legge vigente era quella del più forte, lo stato d'animo dominante era la paura: paura della violenza, della delazione, della persecuzione, dell'estorsione, della morte.
E il paesaggio che faceva da sfondo a questo disordine generale era quello degli impiccati agli alberi delle strade e delle piazze, delle case bruciate dai cacciatori di partigiani o di ebrei, dei plotoni di esecuzione, delle fosse comuni, delle città militarizzate, del coprifuoco.
Ebbene, è a tutto questo che il 25 aprile 1945 ha messo fine. È dunque impossibile considerare quel giorno una data neutra, ininfluente, da cancellare dalla memoria per quieto vivere, per non turbare una conciliazione che è sì doverosa e necessaria, ma nel rispetto dei vincitori e dei vinti e, soprattutto, nel rispetto della verità.
Perché, come ha ammonito Italo Calvino, le vittime della Resistenza sono «tutte uguali davanti alla morte, non davanti alla storia».
C'è un altro aspetto che mi preme sottolineare. Il 25 aprile non fu solo la Liberazione dalla dittatura nazifascista. Il 25 aprile significò per l'Italia anche la costruzione di una nuova e diversa società, i cui principi erano già stati teorizzati e messi in pratica dai dissidenti politici al confino, dagli espatriati e soprattutto dai partigiani. Come ha scritto lo storico del Risorgimento (già partigiano) Guido Quazza, chi è salito in montagna dopo l'8 settembre l'ha fatto per costruire un nuovo ordine, per creare una nuova legalità. La banda partigiana per Quazza è stata “un microcosmo di democrazia”, di partecipazione, di responsabilità personale, quelle che mancavano in pianura, nelle città avvilite dalla violenza della dittatura.
In questo senso la Resistenza fu un'esperienza costituente. Non a caso molti ex partigiani contribuirono a scrivere la nostra Carta costituzionale, trasferendovi quei principi democratici, quell'ordine giuridico sperimentato nell'opposizione al regime fascista".