Certamente tutto dovrà essere riconsiderato, ma non si potrà solo negare e proibire: dovremo trovare il modo adeguato di lavorare, di spostarci, insomma, di riprendere totalmente le nostre relazioni sociali.
Sorprende che dopo tre mesi dall’inizio dell’emergenza, e dopo 50 giorni dal lockdown, non si siano condivise, con i vari soggetti e le varie realtà interessate, le modalità con cui riprendere la vita quotidiana. Nell’emergenza si accettano decisioni e limitazioni, anche errori: meno si può accettare che in tutto questo tempo non si sia arrivati a condividere le indicazioni con chi deve lavorare, chi deve insegnare, chi deve gestire i trasporti e via di seguito, fermi in una inconcepibile quanto sterile contrapposizione fra la salute e, di volta in volta, il lavoro o l’educazione, fino, come abbiamo visto, alla pratica religiosa.
Quando un imprenditore, un artigiano, un negoziante oppure un insegnante o una maestra chiedono di lavorare non stanno pensando ai loro interessi: stanno pensando al bene delle loro famiglie e delle persone che sono loro affidate e così facendo contribuiscono alla costruzione della nostra società e al bene di tutti. La CEI ha posto non solo una questione di riconoscimento e rispetto, ha posto una questione di realismo.
Dietro alla responsabilità con cui gli italiani si son fatti carico delle gravi criticità di questi mesi ci sono uomini e donne impegnati, in particolare, nelle realtà del Terzo Settore. Sono persone che operano spesso gratuitamente in campo sociale ed educativo, sono opere spesso nate da quella cultura e pratica della solidarietà che hanno nella formazione e nell’educazione alla fede cristiana la loro origine ed il loro fondamento. Sono realtà radicate nella società che partecipano concretamente alla costruzione del bene comune. Sono soggetti che trovano riconoscimento e dignità nel principio di sussidiarietà come insegna la dottrina sociale della Chiesa. Tutta gente in azione non per decreto ma che mette in gioco la propria libertà e responsabilità grazie ad una comunione vissuta.
Bloccati dalla paura del virus forse non siamo ancora veramente consapevoli che ci aspettano mesi di grande crisi sociale: ci sarà minor lavoro per le aziende, grandi o piccole che siano, interi settori di mercato non saranno in grado di operare, e tutto questo vorrà dire minor sviluppo economico e conseguente perdita di posti di lavoro. Lo Stato non avrà a disposizione risorse che non esistono per venire incontro alle situazioni di crisi e ancora una volta la società civile, le realtà del Terzo Settore, sarà chiamata a farsene carico.
I nostri governanti se non credono nella sussidiarietà per il modello e per il valore sociale che esprime, almeno la rispettino e la sostengano per necessità, per realismo. Continuare ad ignorarla sarebbe irresponsabile".