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Martedì, 24 luglio 2018

Successo della rassegna "Armonie Verdi. Paesaggi dalla Scapigliatura al Novecento"

Verbania - Grande successo sta riscuotendo la rassegna "Armonie Verdi. Paesaggi dalla Scapigliatura al “Novecento", con opere d’arte della Fondazione Cariplo e del Museo del Paesaggio di Verbania, in corso fino al 30 settembre a Palazzo Viani Dugnani.


Gnecchi Fondo Toce - Lago Maggiore - 1884

Il Museo del Paesaggio di Verbania - dopo la riapertura nel 2016 con la splendida mostra dedicata a Paolo Troubetzkoy aperta in modo permanente al piano terra e la bella rassegna del 2017 I volti e il cuore, sulla figura femminile tra Otto e Novecento - riapre la stagione primaverile con una incantevole mostra dedicata al paesaggio, Armonie verdi. Paesaggi dalla Scapigliatura al Novecento.


La rassegna, nata dalla collaborazione tra Fondazione Cariplo e Fondazione Comunitaria del Verbano Cusio Ossola, è la quinta tappa dell’iniziativa Open, tour di eventi espositivi, in collaborazione con le Fondazioni di Comunità, che sta portando il patrimonio artistico dell’ente milanese, in tutta la Lombardia, nelle province del Verbano-Cusio Ossola e di Novara.


L’intento del tour Open è promuovere l’impegno delle Fondazioni di Comunità a favore del proprio territorio; diffondere i temi della filantropia, della cultura del dono e della comunità, divulgare la conoscenza del patrimonio artistico locale (oltre a quello di Fondazione Cariplo). E soprattutto portare l’arte all’attenzione di un vasto pubblico di giovani, proponendo loro di utilizzarlo come risorsa di studio e per sperimentare percorsi di apprendimento in ambito culturale e artistico.


I CURATORI - La mostra, curata dalla storica dell’arte Elena Pontiggia e da Lucia Molino, responsabile della Collezione Cariplo, si svolgerà in 3 sezioni: Scapigliatura, divisionismo, naturalismo; Artisti del Novecento Italiano; Oltre il Novecento, e svelerà l’incanto di circa cinquanta opere – tra cui dipinti di Daniele Ranzoni, Francesco Gnecchi, Lorenzo Gignous, Emilio Gola, Mosè Bianchi, Carlo Fornara, Ottone Rosai, Filippo De Pisis, Arturo Tosi, Umberto Lilloni - provenienti dalle Raccolte d’arte della Fondazione Cariplo, del Museo del Paesaggio di Verbania e da collezioni private.


Un suggestivo e affascinante viaggio tra capolavori d’arte di fine Ottocento alla prima metà del Novecento, che si snoda lungo scenari di grande poesia, bellezza e colori, per indagare il rapporto senza tempo tra uomo e natura.


La panoramica delle opere scelte testimonia le variazioni dell’interpretazione del paesaggio, dalla centralità ancora di origine romantica che il tema occupa nella pittura di fine Ottocento, alla interpretazione volumetrica degli anni Venti, dove il paesaggio è costruito come un’architettura e suggerisce un senso di solidità e di durata, fino al nuovo senso di precarietà espresso a partire dagli anni Trenta.


LE OPERE - La mostra muove dai paesaggi di Daniele Ranzoni, maestro della Scapigliatura, di cui sono esposte tre opere tra cui lo Studio di paesaggio fluviale (1872), un acquerello colmo di luce, simile a un’apparizione.


Fragiacomo Armonie Verdi - 1920 -

Seguono Lorenzo Gignous con la bella Veduta del Lago Maggiore (1885-1890) ; Mosé Bianchi, con Interno rustico (1889-1895); Federico Ashton con la spettacolare Cascata del Toce in Valle Formazza (1890), Carlo Cressini con il suggestivo Le gelide acque del lago di Märjelen (1908 ca) ; Francesco Gnecchi con Fondo Toce (Lago Maggiore) (1884).


Dalla fine dell’Ottocento al tempo di guerra a tener viva una pittura di paesaggio sono soprattutto i divisionisti. Ecco dunque Vittore Grubicy con l’elegiaco e commosso Cimitero di Ganna, 1894, Cesare Maggi con il lirico trittico Neve, 1908 e Nevicata, 1908 e 1911; Carlo Fornara con lo scenario campestre de I due noci, 1921, a cui si possono accostare Guido Cinotti con Marina (1910-1915), paesaggio di sola luce e colore e Clemente Pugliese Levi con l’altrettanto spirituale Cave di Alzo, 1920. La sezione si conclude con i paesaggi brianzoli di Emilio Gola e le vedute di Pietro Fragiacomo (il cui Armonie verdi dà il titolo alla mostra) , Teodoro Wolf Ferrari, Antonio Pasinetti.


Il paesaggio, poco considerato dai futuristi che amavano la città industriale e la macchina, torna a riaffermarsi in pittura col Ritorno all'ordine e col Novecento Italiano, cui è dedicata la seconda sezione della mostra. La sezione si vale anche di due prestigiosi nuclei di opere recentemente assicurati, con un deposito, al Museo del Paesaggio: Il lago, 1926, di Sironi, e un importante serie di paesaggi di Tosi.


Sono qui esposte cinque opere di Mario Tozzi, emblematiche del passaggio dall’impressionismo ai valori classici: la poetica Casetta a Suna, oggi Verbania, del 1914; Cimitero di Suna e La passeggiata, luminose opere impressioniste del 1915; Neve a Lignorelles, 1921 e Paesaggio di Borgogna, 1922, entrambe ormai novecentiste, dipinte con forme più dense e volumi più definiti. Anche Anselmo Bucci con Il governo dei cavalli, 1916, documenta un momento di transizione.


Col Novecento Italiano infatti alla volatilità dei paesaggi precedenti subentrano opere caratterizzate da forza costruttiva e solidità, come Paesaggio, 1922, di Rosai: Ornavasso, 1923 e Guardando in alto, 1925, di Carpi; Pioppi, 1930, di Michele Cascella; Paesaggio invernale, 1930 e Piazza Santo Stefano a Milano del 1935, stilizzati e stupefatti paesaggi urbani di Penagini. Emblematico di questa sezione è Il lago, 1926, di Sironi, che non ha nulla di grazioso o di pittoresco: è il frammento di un mondo senza tempo, immobile, incastonato in una chiostra anch’essa immobile di montagne.


Di Tosi infine vediamo Cipresso a Zoagli, Le tre betulle, Fuori dallo studio, Ulivi a Montisola, Il piantone e Lago di Como, dipinti tra il 1923 e il 1940. Nel Novecento Italiano Tosi rappresenta l’ala più vicina alla tradizione lombarda ottocentesca. La sua pennellata fluida e pastosa si riallaccia a una scuola pittorica che dal Fontanesi e dal Piccio giunge alla Scapigliatura e a Gola. Con il Novecento Tosi condivide però il senso della sintesi e di una salda struttura architettonica, mutuata soprattutto da Cézanne.


Con gli anni Trenta le cose cambiano nuovamente, si abbandonano le forme volumetriche e la pittura torna a esprimere un senso di finitezza e precarietà. Lo si vede nel tremante Temporale (1933), di De Pisis; in Paesaggio di Lavagna (1934) di Lilloni, o in opere del secondo dopoguerra di Dudreville (Case a Feriolo, 1945) e Soffici (Veduta serale del poggio,1952).


BIOGRAFIE ARTISTI


ASHTON FEDERICO


Nato a Milano nel 1836 da padre inglese e madre fiorentina, Federico Ashton frequenta l’Accademia di Brera, dove ha come insegnante Gaetano Fasanotti: l’ispirazione al vero è sicuramente quanto di meglio Ashton ha avuto dalla scuola del Fasanotti, temperata da un gusto romantico per la visione. Comincia a dipingere e ad esporre i suoi quadri abbastanza presto, dedicandosi con prevalenza al paesaggio e raccogliendo notevoli ed immediati successi. Trova il suo paesaggio ideale nell’Ossola e nella vicina Svizzera, dove ha come maestro il famoso Alexandre Calame. La sua ricerca pittorica lo porta un po’ ovunque nelle Alpi, ma il maestoso Monte Rosa rimane la montagna da lui prediletta. Trascorre gran parte degli anni ’70 a Roma per perfezionare la sua pittura ed insegnare alle signorine dell’aristocrazia, mentre nel decennio successivo abita spesso sul lago Maggiore, entrando in contatto con alcuni esponenti del naturalismo lombardo e dirigendo anche una scuola di pittura a Pallanza. Dal 1892 abita stabilmente a Domodossola, punto di partenza per escursioni nelle vallate ossolane e svizzere, dipingendo valli, alpeggi, paesi, passi, ghiacciai. Nel 1904 muore cadendo in un burrone nei pressi del passo del Sempione.


BARBIERI CONTARDO


Diplomatosi all'Accademia di belle arti di Brera nel 1921, ha inizialmente rielaborato la tradizione figurativa lombarda tardo-ottocentesca, attratto dalle ricerche sulla luce e sul colore di Emilio Gola, Daniele Ranzoni, Emilio Longoni. Senza abbandonare la matrice realista della propria pittura, nel corso degli anni venti ha raggiunto una resa delle forme più solida e sintetica sulla suggestione delle coeve ricerche del gruppo Novecento, al quale ha aderito dopo la prima mostra milanese del 1926. Dall'esordio nel 1927 all'"Esposizione nazionale d'arte", allestita presso il palazzo della Permanente a Milano, ha partecipato a numerose mostre, tra cui nel 1928 la Biennale di Venezia. Ha ottenuto numerosi riconoscimenti con un vasto repertorio di ritratti, figure femminili, nature morte, oltre a paesaggi, nei quali ha coniugato il severo linguaggio novecentista allo studio dal vero. Fu nominato direttore dell'Accademia Carrara di Bergamo nel 1931 e nell'ambito del rinnovamento culturale della città, eseguì nel 1938 per la casa littoria "A. Locatelli" una decorazione murale, poi distrutta. Alla metà degli anni trenta partì volontario in Africa orientale. In coincidenza con il fallimento dell'ideologia fascista maturò una crisi artistica culminata nel 1942, con il ripiegamento su modelli e schemi derivati dall'arte antica. Nel 1959 tre sue opere (Paesaggio ligure, Nello studio e Colline lombarde) vennero esposte alla mostra 50 anni d'arte a Milano. Dal divisionismo ad oggi, organizzata dalla Permanente.


BIANCHI MOSE'


Figlio di Giosuè, insegnante di disegno e pittore (ritrattista ed esecutore di pale d'altare, di miniature ed acquerelli), e di Luigia Meani, Mosè nasce a Monza il 13 ottobre 1840. Compiuti gli studi tecnici nel collegio Bosisio, nel 1856 s’iscrive all'Accademia di Brera di Milano. In questi anni stringe rapporti di amicizia con i compagni di corso: Filippo Carcano, Tranquillo Cremona, Federico Faruffini e Daniele Ranzoni, condividendo con essi, qualche anno dopo, lo studio milanese in via San Primo. I suoi primi lavori, di carattere romantico, sono chiaramente influenzati dallo stile del Bertini. Arruolatosi nelle file garibaldine, fece parte di un battaglione di Cacciatori delle Alpi, ma sembra non prese mai parte a nessun combattimento e inoltre, che per la sua indisciplinatezza passò buona parte di quel tempo agli arresti. Completati gli studi nel 1864, dipinse per la chiesa di Sant’Albino, presso Monza "La comunione di S. Luigi Gonzaga", e subito dopo, il suo primo quadretto di genere, "Vigilia della sagra", 1864, (Galleria d'Arte Moderna di Milano), briosa e vivace scena, nella quale emergono già tutte le qualità che il pittore dimostrerà negli anni a venire. Il periodo trascorso a Venezia lo mette a contatto con i grandi pittori veneti del '700, dal Ricci al Guardi, facendo maturare il suo istinto pittorico. Per due anni vive fra Venezia e Parigi e la sua pittura passa dai temi storici, religiosi e letterari d'ispirazione romantica, a scene di genere e costume, caratterizzate da una guizzante pennellata. Nel 1869, rientrato a Milano, espone a Brera, riscuotendo grande successo. Oramai affermato, nel 1870 realizza "Benedizione delle case" (Accademia di Brera, Milano); nel 1872 la "Cleopatra" (Galleria Durini); nel 1874 un "Interno del duomo di Monza" (collezioni del re del Belgio). Dal 1871 è consigliere dell’Accademia di Brera. Ripetuti soggiorni a Venezia lo inducono a realizzare vedute lagunari, replicate in numerose versioni. Alla fine degli anni Settanta inizia la sua attività di frescante con il ciclo nella Villa Giovanelli a Lonigo, presso Vicenza, seguiti, nel 1883, dalla decorazione della saletta della Stazione ferroviaria di Monza e nel 1885 dalle decorazioni di Palazzo Turati a Milano. Nel 1890 a Gignese, sopra il Lago Maggiore, dipinge, forse con l'ausilio fotografico, una serie di vedute alpine, ove i grandi massi di pietra fanno da sfondo a isolate figure di giovani pastori. Dello stesso periodo sono anche le suggestive vedute di Milano, spesso innevata, e della periferia lungo il Naviglio. Si dedica, anche all’acquaforte ricevendo, nel 1896, un premio al Concorso della Calcografia Nazionale. Nel 1898 è nominato insegnante e direttore dell’Accademia Cignaroli di Verona. Alla fine del 1899, a seguito di malattia, ritorna a Monza ed abbandona la pittura. Si spegne nella città che gli diede i natali il 15 marzo 1904.


BUCCI ANSELMO


Anselmo Bucci nasce a Fossombrone, in provincia di Pesaro, il 25 maggio del 1887. Artista italiano, pittore e incisore, autore anche di alcuni testi letterari di rilievo, è stato uno dei protagonisti delle nascenti avanguardie artistiche dei primi decenni del Novecento, tanto in Italia che in Francia. Durante la permanenza della famiglia nei dintorni di Ferrara, il giovane Anselmo è seguito nel disegno dal noto pittore Francesco Salvini. Nel 1905 poi, si iscrive all'Accademia di Brera, a Milano, pur risiedendo a Monza, con la sua famiglia. Tuttavia, sin da questi anni, rivela la sua insofferenza nei confronti della retorica pittorica e già l'anno dopo, nel 1906, si trasferisce a Parigi, all'epoca capitale dell'avanguardia artistica. Conosce Gino Severini, Pablo Picasso, Amedeo Modigliani e molti altri. Inoltre comincia a farsi apprezzare come incisore, arte nella quale diventa maestro, attirando su di sé l'attenzione di critici come Apollinaire e Salmon. Nel 1907 Bucci espone un dipinto al Salon. Tuttavia prosegue con grande impegno i suoi studi nell'incisione, appassionandosi alle diverse tecniche, come l'acquaforte e, soprattutto, la punta secca, la quale gli permette di sviluppare le sue tematiche incentrate sul movimento dei soggetti. Il biennio che va dal 1912 al 1913 è per lui quello dei viaggi. Fedele alla tradizione dei pittori francesi, decide di spostarsi in giro per l'Europa e per il Mediterraneo, studiando nuove colorazioni e luminosità. Visita diversi luoghi viaggiando in Sardegna, in Africa, nel sud della Francia: tutti i lavori di questo periodo sono caratterizzati dai suoi spostamenti. Nel 1914, quando scoppia la Prima Guerra Mondiale, Anselmo Bucci si arruola volontario nel "Battaglione Ciclisti", in Lombardia. Di questa squadra fanno parte anche altri artisti e poeti futuristi come Marinetti, Boccioni, Sant'Elia e Carlo Erba. Nello stesso anno, alla Mostra dell'Incisione di Firenze, l'artista pesarese si aggiudica la medaglia d'argento. La guerra lo ispira e diventa uno dei più prolifici "pittori di guerra". Nel 1920 viene invitato alla Biennale di Venezia. È intorno a questa data che avviene in Anselmo Bucci un mutamento di stile, il quale lo riporta verso una svolta di tipo classicista. Si accosta allora alla cerchia di intellettuali e artisti che fanno capo alla scrittrice Margherita Sarfatti e nel 1922, insieme con Sironi, Funi, Dudreville (che aveva già conosciuto durante il periodo di Brera), e anche con Malerba, Marussig, Oppi, dà vita al cosiddetto gruppo del "Novecento". È lui, anzi, a battezzarlo con questo nome. L'intento programmatico è quello di ritornare alla figura, alla riconoscibilità del soggetto, distaccandosi dagli estremismi delle avanguardie nascenti, sempre più lontane dalla classicità. Lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, come la Prima, è per Bucci anche un'occasione per rimettersi in gioco dal punto di vista artistico. Così, durante il conflitto, si ricicla come interprete figurativo delle imprese di guerra. Incide raffigurazioni legate alle imprese della Marina e dell'Aviazione Militare. Nel 1943 la sua casa di Milano, sede anche del suo studio, viene distrutta. Così ritorna a Monza in quella che è la casa della sua famiglia. Trascorre i suoi ultimi dieci anni in pieno isolamento. Nel 1949 ottiene l'ultima onorificenza per la sua arte: il Premio all'Angelicum, un riconoscimento per l'arte sacra.


CARPI ALDO


Nato a Milano nel 1886, Aldo Carpi studia dal 1906 all’Accademia di Brera, avendo come maestri Cesare Tallone, Giuseppe Mentessi e Achille Cattaneo. Partecipa alla prima guerra mondiale con il grado di maggiore di fanteria. Nel 1925 vince il premio Principe Umberto della Biennale di Brera, Accademia di cui viene nominato titolare di pittura nel 1930 e di cui sarà direttore dal 1945 al 1958. Nel 1937 vince la medaglia d’oro all’Esposizione Universale di Parigi. Nel 1944, denunciato per antifascismo, viene deportato a Mathausen e poi a Gusen, dove esegue una serie di disegni. A Milano esegue vetrate per il Duomo, la basilica di San Simpliciano e la chiesa delle suore del Sacro Cuore, nonchè affreschi per la chiesa di Santa Maria del Suffragio. Partecipe attivo alla vita artistica ed intellettuale del capoluogo lombardo, muore nel 1973.


CASCELLA MICHELE


Nel corso della sua lunga vita artistica articolatasi in quasi otto decenni di intensa attività, Cascella ha saputo mantenere uno stile unico, inconfondibile e pressoché immune dalle contaminazioni delle correnti ed avanguardie pittoriche del novecento. Le sue opere, comprendenti tele, tavole, pastelli e disegni, sono esposte nei più importanti musei italiani e internazionali, tra i quali il Victoria and Albert Museum di Londra, la Galerie nationale du Jeu de Paume di Parigi, il National Museum of History and Art in Lussemburgo, il Musée d'Art Moderne a Bruxelles e la De Saisset Art Gallery dell'Università di Santa Clara in California, dove è esposta una vasta collezione permanente di opere. Copiosa risulta pure l'opera grafica, comprendente litografie, cromolitografie, serigrafie e acqueforti, tecniche che utilizzò sin da ragazzo e grazie alle quali conobbe - soprattutto sul finire del XX secolo - e mantiene tuttora una notevole notorietà presso il grande pubblico. I tratti distintivi del pittore contemperano la superba capacità compositiva, cui si aggiungono la grande padronanza del disegno e le vibranti cromìe, di cui sono esemplari fattispecie le composizioni floreali, nelle quali Cascella tocca vette espressive elevatissime. Dopo aver svolto le prime attività artistiche sotto la guida del padre Basilio, nel 1907 tiene, assieme al fratello Tommaso, la sua prima mostra personale nelle sale della Famiglia Artistica Milanese. Nel 1909, sempre col fratello Tommaso, allestisce una mostra nella Galleria Druet di Parigi, partecipando nello stesso anno al Salon d'Automne. A Roma, nel 1919, tiene una mostra personale alla Galleria Bragaglia e conosce in quella occasione Carlo Carrà che consente poi il trasferimento della mostra a Milano nella Galleria Lidel. Nel 1920 si stabilisce definitivamente a Milano dove frequenta con entusiasmo il poeta Clemente Rebora, da cui confesserà di aver tratto ispirazione per la realizzazione di alcune sue opere. Dal 1928 al 1932 viaggia tra l'Italia e Parigi dove, nel 1937, gli viene assegnata la medaglia d'oro all'Esposizione Internazionale. Nel 1938 esegue le scenografie dell'opera Margherita da Cortona rappresentata al Teatro alla Scala. Dal 1928 al 1942 è presente a tutte le edizioni della Biennale d'arte di Venezia, e nell'edizione del 1948 avrà una sala personale. Dal 1938 risiede a Portofino che diventa una fonte d'ispirazione delle sue opere tarde. Dopo la seconda guerra mondiale si fanno più frequenti le sue mostre all'estero: Parigi (negli anni cinquanta e sessanta) ma anche Sudamerica (soprattutto Buenos Aires e Montevideo) e Stati Uniti. E proprio negli USA, in California, si stabilirà per lunghi periodi di tempo, alternando periodi di permanenza in Italia (ha risieduto per alcuni anni in campagna nei pressi di Colle Val d'Elsa) ed in Europa. I soggetti più rappresentati sono fiori, campi di grano e papaveri, i paesaggi abruzzesi e Portofino. Importanti sono state le mostre antologiche di questo periodo.


CINOTTI GUIDO


Nato a Siena nel 1870, si trasferisce presto a Milano, dove studia all’Accademia di Brera e dove è presente ad ogni manifestazione pubblica. Nel 1894 vince il premio Mylius dell’Accademia di Brera con un dipinto intitolato Conigli. Dopo l’influenza della pittura di Filippo Carcano, si accosta al divisionismo di matrice segantiniana, accogliendo anche spunti liberty – nature morte, fiori – per poi orientarsi, nel primo dopoguerra, su una pittura d’impasto a tocchi di colore spatolato. Muore a Milano nel 1932.


COSTA GIOVANNI


Giovanni detto Nino Costa nasce a Roma nel 1826: il padre è un rappresentante della borghesia industriale romana. Durante la giovinezza riceve un'educazione di impostazione classica, rimane affascinato dall'arte del medioevo e del rinascimento e si dedica alla pittura frequentando, sempre nella città natale, Roma, intorno al 1848, lo studio del Camuccini, quello del Coghetti e infine quello di Podesti e del Clerici. Ha però una propensione per la natura e la pittura dal vero che lo allontanano da questi artisti, intrinsecamente legati alle esperienze neoclassica e romantica. Convinto assertore di un'unità nazionale Nino Costa partecipa alla prima guerra di indipendenza, anche al seguito di Garibaldi. Nella Repubblica romana del 1849 è consigliere municipale. Alla caduta della Repubblica deve fuggire. Dopo la restaurazione, tra il 1850 e il 1851, compie un viaggio a Napoli: qui probabilmente conosce i risultati della scuola di Posillipo che affinano la sua naturale propensione per la rappresentazione verista del paesaggio. In questi anni inizia a soggiornare ad Ariccia dove frequenta alcuni artisti stranieri: i Nazareni come Overbeck e Cornelius, con cui condivide la passione per l'arte antica, trovando in essi un analogo riconoscimento del Quattrocentismo, e, ad accentuare una tendenza idealistica che si sta facendo simbolista, e che sarà accentuata verso la fine del secolo, anche Boecklin e Oswald Achenbach. Risalgono a questo periodo le prime conoscenze inglesi: nel 1852 incontra George Mason, in compagnia del quale dipinge en plein air nella campagna romana, e nel 1853 conosce Frederick Leighton. Probabilmente sono loro a informare l'artista romano sulle idee di Ruskin, che dovevano apparire congeniali al Costa la cui ricerca pittorica si fondava sulla rielaborazione del vero attraverso il "sentimento del pensiero". I suoi contatti con artisti stranieri di tendenze simbolistiche si moltiplicano tra il 1850 e il 1867: frequenta Boecklin, Emile David, Mason, Leighton, ed entra in rapporti col gruppo del Caffè Michelangelo. Conosce così i Macchiaioli, divenendo amico di Cabianca, De Tivoli, Banti, Fattori. Tra il 1855 e il 1856 la conoscenza con lo svizzero Emile David lo informa sulle prove di Corot e dei barbizonniers, e dell'inglese Charles Coleman lo convince definitivamente ad abbandonare i soggetti storici. Viaggia molto: a Londra dove attraverso Leighton conosce Burne-Jones e Watts, a Parigi, dove nel 1862 espone al Salon e riceve gli apprezzamenti favorevoli da Corot, Descamps, Troyon; la stessa cosa si ripete nel 1865. Mantiene contatti a Firenze con il critico e difensore dei Macchiaioli Martelli e con gli amici inglesi Howard, Richmond, Leighton. Dal 1856 ha inizio la sua fortuna presso l'ambiente inglese. Da questo periodo il processo creativo di Costa si prolunga nel tempo, inizia opere che conclude molto tempo dopo, tempo necessario per far maturare i contenuti di una sua ricerca idealistica della perfezione. Da questa tendenza in definitiva spirituale nasce la sua opera più nota, La Ninfa nel bosco, iniziata nel 1863 e terminata venti anni dopo; in essa si riassume così un percorso interiore che conduce alla pittura simbolista. Nel 1859 torna a combattere per l'indipendenza italiana, arruolandosi nel Regio Esercito piemontese. Alla fine dello stesso anno torna Firenze, divenuta punto di ritrovo di molti patrioti dopo l'abbandono di Napoleone III, nell'intenzione di procedere con la politica delle annessioni spontanee all'unificazione della penisola. Ma Firenze è anche centro d'arte e qui Costa svolge un ruolo significativo nel circolo del Caffè Michelangelo. Influenza soprattutto Giovanni Fattori, ed è lui a convincere i giovani Macchiaioli ad abbandonare i soggetti storici e dedicarsi alla pittura dal vero, nonché dell'introduzione innovativa del formato accentuatamente longitudinale. Negli anni Sessanta alterna alla residenza fiorentina i soggiorni romani, durante i quali, tra il 1865 e il 1866, incontra George Howard. Questi, divenuto Lord Carlisle sosterrà la fortuna di Costa in Inghilterra e ne diverrà uno dei maggiori collezionisti. Nel 1867 si stabilisce nuovamente a Firenze in seguito alla sconfitta di Mentana e lavora tra Livorno, Castiglioncello e Bocca d'Arno. Nino Costa muore il 31 gennaio del 1903 a Marina di Pisa. È sepolto presso il Cimitero del Verano a Roma.


CRESSINI CARLO


Nato a Genova nel 1864 da famiglia colta e benestante, Carlo Cressini studia con Enrico Gamba all’Accademia Albertina di Torino e con Giuseppe Bertini all’Accademia di Brera di Milano. Esordisce a livello espositivo nel 1884 e in quegli anni stringe rapporti d’amicizia con altri pittori (Longoni, Sottocornola, Mentessi, Belloni). Partito da premesse post-scapigliate, si esercita inizialmente in ritratti e nature morte, ma dal 1886 affronta con impegno il tema del paesaggio, risolvendolo con pennellate sciolte e toni sommessi e seguendo la lezione del naturalismo lombardo. Negli anni ’90 realizza ritratti ambientati in cui si manifesta l’interesse per gli effetti di luce stimolato dal divisionismo, mentre più tardi dipinge alcune opere di arte sociale, prive però di evidente denuncia. Cressini, dedito all’alpinismo, è noto soprattutto come “lo specialista della montagna alta”, tema che comincia ad affrontare all’inizio degli anni ‘90, recandosi principalmente in Valtellina, Ossola e nelle Alpi Bernesi. Per questo tipo di opere utilizza, a partire dalla seconda metà del primo decennio del Novecento, la tecnica divisionista, applicata con personale autonomia e mai con esasperato rigore. Muore a Milano nel 1938.


DE PISIS FILIPPO


De Pisis inizia adolescente a scrivere poesie, ma si dedica anche allo studio della pittura sotto la guida del maestro Odoardo Domenichini nella sua città natale, Ferrara, ed è proprio la pittura in seguito a portarlo a vivere una vita avventurosa, appassionata in varie città sia italiane Roma, Venezia e Milano, sia europee Parigi e Londra. Nel 1915 incontra De Chirico e il fratello Alberto Savinio a Ferrara per il servizio militare e nel 1917 Carlo Carrà. Conosce e si entusiasma rimanendo suggestionato del loro modo di concepire la pittura e, inizialmente, ne condivide lo stile metafisico ma poi brevi soggiorni a Roma e a Parigi all'inizio degli anni venti gli aprono nuovi orizzonti pittorici. Inizia a rielaborare un suo stile fatto di suggestioni e soggetti del tutto originali, dove il tratto pittorico diventa spezzato quasi sincopato, definito da Eugenio Montale "pittura a zampa di mosca". L'amicizia con Julius Evola gli consente di approfondire i suoi interessi esoterici e di trasferirli nell'arte moderna. De Pisis dopo avere scritto prose, liriche e poesie raccolte ne I Canti de la Croara ed Emporio nel 1916, nel 1920 inizia a scrivere il saggio La città dalle 100 meraviglie, pubblicato in seguito a Roma nel 1923, dove si può notare l'influenza dei fratelli De Chirico con la loro visione nostalgica e malinconica della pittura. Alla ricerca di nuovi stimoli si trasferisce nel 1925 a Parigi. Il soggiorno si protrasse ininterrottamente per quattordici anni rivelandosi proficuo sotto vari aspetti, ed essenziale sotto l'aspetto artistico. Conosce Édouard Manet e Camille Corot, Henri Matisse e i Fauves, per un uso più gestuale del colore e, oltre alle nature morte, dipinge nel periodo parigino paesaggi urbani, nudi maschili e immagini d'ermafroditi. Nel 1926 de Pisis fa una sua personale presentata da Carlo Carrà alla saletta Lidel di Milano e sulla scia del successo, riesce ad esporre la sua prima mostra personale parigina alla Galerie au Sacre du Printemps con la presentazione di De Chirico, continua in seguito ad esporre anche in Italia e inizia a scrivere articoli per L'Italia Letteraria e altre riviste minori. Stabilì un rapporto intenso con il pittore Onofrio Martinelli, già incontrato a Roma. Tra il 1927 e il 1928 i due artisti divisero anche una casa-studio, in rue Bonaparte. Entra quindi a far parte degli "italiani di Parigi", un gruppo d'artisti che comprendeva de Chirico, Savinio, Massimo Campigli, Mario Tozzi, Renato Paresce e Severo Pozzati, e il critico francese Waldemar George (che nel 1928 cura la prima monografia su de Pisis) presenta la mostra "Appels d'Italie" alla Biennale di Venezia del 1930. Durante il periodo parigino visita Londra, per brevi soggiorni che ripeterà ben tre volte, stringendo rapporti d'amicizia con Vanessa Bell e Duncan Grant. Nel 1939 ritornato in Italia, De Pisis, in occasione del Premio St. Vincent, passa un'estate nella cittadina valdostana dove ha anche l'occasione di incontrare il pittore locale Italo Mus. Si stabilisce a Milano e, in seguito alla distruzione del suo studio in Via Rugabella nel 1943, si stabilisce a Venezia dove si lascia ispirare dalla pittura di Francesco Guardi e di altri maestri veneziani del XVIII secolo. Partecipa alla vita culturale della città lagunare, ove fu amico e maestro del pittore e concittadino Silvan Gastone Ghigi, ma dopo un breve soggiorno a Parigi tra il 1947 e il 1948, inizia a rivelare i primi sintomi di un'arteriosclerosi che lo costringe a ricoverarsi in una clinica vicino a Brugherio. Dipinge fino al 1953, dopodiché le precarie condizioni di salute non gli permetteranno più di svolgere alcun lavoro e il 2 aprile 1956 muore a Brugherio.


DONGHI ANTONIO


Nasce a Roma il 16 marzo 1897 da Ersilia de Santis, romana, e da Lorenzo, commerciante di stoffe originario di Lecco. Dopo la separazione dei genitori trascorre un periodo in collegio, poi si iscrive al Regio Istituto di Belle Arti di Roma, frequentando i corsi comuni e i corsi superiori di decorazione fino alla licenza conseguita nel 1916. Nello stesso anno, iniziato il servizio militare, è inviato in Francia, al seguito della 15 compagnia ferrovieri. Al termine della guerra, si dedica allo studio della pittura nei musei di Firenze e Venezia, interessandosi soprattutto al XVII e XVIII secolo. L'esordio si colloca nel 1922, quando presenta un'opera alla XV Esposizione della Società amatori e cultori di belle arti di Roma. Il clima in cui Donghi inizia ad operare è quello sviluppatosi intorno al gruppo di "Valori Plastici" e nella "Terza saletta" di Aragno negli anni del dopoguerra. Nel 1924 le prime mostre personali nella Sala Stuard di via Veneto e alla Casa d'Arte Bragaglia, rendono nota la pittura di Donghi a un pubblico più vasto. In dicembre, alla Galleria Pesaro di Milano, Donghi partecipa alla importante Esposizione di venti artisti italiani, una mostra, curata da Ugo Ojetti, che vede la partecipazione, tra gli altri di, de Chirico, Casorati, Guidi, Oppi, Tozzi, Trombadori. Donghi appare già a questa data come un esponente di quella tendenza che poco dopo il critico tedesco Franz Roh definisce "Realismo magico". Nonostante il suo carattere schivo l'artista assume nel corso degli anni Venti una dimensione di lavoro sempre più internazionale. Appare molto importante l'appoggio ricevuto da parte di Ugo Ojetti e anche il rapporto con il musicista Alfredo Casella, uno dei primi collezionisti italiani disposti ad apprezzare il suo lavoro. Nel 1928, dopo una nuova esposizione a New York, partecipa alla Biennale di Venezia. Nel marzo 1929 con cinque opere partecipa alla Prima mostra del Sindacato laziale fascista degli artisti. Sempre nel 1929 partecipa alla Seconda mostra del Novecento Italiano. Gli anni Trenta sono per Donghi anni di intenso lavoro e di notevoli affermazioni. Nel 1936 ottiene l'incarico di figura disegnata presso la Regia Accademia di Belle arti e liceo artistico di Roma. Da questo momento si divide tra l'insegnamento e la pittura, sviluppando soprattutto il tema del paesaggio italiano, indagato e studiato dal vero in frequenti viaggi. Sono in gran parte paesaggi le opere esposte tra il 1938 (Roma, Galleria Jandolo) e il 1940 (Milano, Galleria Gian Ferrari) ma non vanno dimenticati alcuni quadri che tornano sui suoi temi preferiti: saltimbanchi, cantanti e attricette da avanspettacolo, e poi " attori" inconsapevoli come cacciatori, pescatori, fanciulle in vacanza, giovani amanti e perfino un attore d'eccezione come Il duce, ritratto su un bianco cavallo in un quadro (disperso) eseguito per il Premio Sanremo del 1937. La partecipazione alla quarta Quadriennale (1943) e la personale alla Galleria La Finestra di Roma (1945) rivelano i sintomi di un cambiamento di linguaggio che si farà sempre più evidente: si accentuano le componenti calligrafiche, a scapito della composizione complessiva dei dipinti, mentre sempre più raramente l'artista affronta soggetti di grandi dimensioni. Il clima culturale del dopoguerra non contribuisce certo alla sua serenità di lavoro. Il periodo che va dal 1950 alla morte (Roma 16 luglio 1963) può essere considerato come un periodo di ripiegamento. Donghi dipinge quasi esclusivamente paesaggi, partecipa alle Biennali di Venezia del 1952 e 1954 in tono minore, e così alle Quadriennali (1951, 1955, 1959).


DUDREVILLE LEONARDO


Nel 1905 stringe amicizia con Anselmo Bucci, con il quale affitta uno studio e compie un viaggio a Parigi l’anno seguente, mentre nel 1907 si presenta ad Alberto Grubicy con le sue prime opere, di stampo divisionista, e viene accettato tra gli artisti della galleria, potendo così esporre con loro a Parigi. Conosce quindi Boccioni, Bonzagni e i futuristi, ma la sua pittura, dal 1912, si volge ad un’astrazione di ascendenza simbolista; tra il 1913 e il 1914 fonda, con il critico Ugo Nebbia, il gruppo “Nuove Tendenze”, cui aderiscono Erba, Funi, Sant’Elia, Chiattone. Dopo la guerra Dudreville abbandona le opere astratte e ritorna al realismo, mentre nel 1919 si riavvicina ai futuristi. Nel 1922 è tra i fondatori del gruppo “Sette pittori del Novecento” – comprendente Bucci, Dudreville, Funi, Malerba, Marussig, Oppi, Sironi – ma se ne stacca presto. In questi anni la sua pittura approda a un realismo minuzioso che si esprime particolarmente nelle nature morte, oltre che nei paesaggi. Tale ricerca realistica prosegue anche dopo il 1942, anno in cui Dudreville si trasferisce sul lago Maggiore, a Ghiffa, dedicandosi fino agli ultimi giorni di vita (1975) alle nature morte – soprattutto cacciagione – ai paesaggi e ai ritratti.


FORNARA CARLO


Nato in una famiglia contadina a Prestinone, in Val Vigezzo, nel 1871, si iscrive alla locale Scuola di Belle Arti Rossetti Valentini di Santa Maria Maggiore, dove segue gli insegnamenti di Enrico Cavalli. Nel 1891 partecipa alla Prima Triennale di Brera, dove vede le prime opere divisioniste, mentre dopo un viaggio in Francia (1894-95) si accosta al neoimpressionismo. Nel 1897 la giuria della Terza Triennale di Brera rifiuta il suo dipinto En plein Air, che viene invece giudicato positivamente da Segantini e da Pellizza. Quindi entra a far parte del cenacolo milanese del mercante d’arte Alberto Grubicy, che lo inserisce in una serie di mostre e manifestazioni anche internazionali, ormai presentato come esponente del divisionismo “ideale” insieme a Previati. Il legame con la galleria Grubicy garantisce a Fornara la tranquillità economica e la possibilità di risiedere nell’amata Valle Vigezzo. Quindi la sua pittura si evolve verso soluzioni post-impressioniste avvolgendosi spesso attorno a persistenze divisioniste, trattenute dall’uso della pennellata sottile e filiforme. Dal 1922 si ritira nella casa di Prestinone, dove muore nel 1968.


FRAGIACOMO PIETRO


Figlio di Domenico, originario di Pirano, e di Caterina Dolce nacque a Trieste il 14 ag. 1856. A otto anni (Pica, 1905), o forse a dodici (Ojetti, 1911), si trasferì con la famiglia a Venezia. Nel 1871 andò a vivere a Treviso avendo trovato un impiego, inizialmente come tornitore e fabbro, quindi come disegnatore, presso la Società veneta di costruzioni meccaniche. Nel 1877, rientrato in famiglia, si iscrisse all'Accademia di belle arti di Venezia. Seguì, tra gli altri, i corsi della scuola di paesaggio istituita e diretta da D. Bresolin, presso il quale fece le prime esperienze di pittura all'aperto. Dopo un solo anno abbandonò gli studi. Continuò tuttavia a dipingere sotto la spinta di G. Favretto, del quale divenne amico. Intorno al 1878-79 conobbe E. Tito con il quale era solito recarsi a dipingere vedute a S. Pietro in Castello. Nel corso degli anni Ottanta il F. prese parte con i suoi paesaggi alle maggiori esposizioni nazionali: a Milano nel 1882, a Roma l'anno seguente, nuovamente a Torino nel 1884, dove presentò Venezia povera. Diversamente da Favretto e Tito, il F. non fu attratto dai motivi del folklore veneziano. Dedicò piuttosto la sua attenzione al paesaggio dell'entroterra lagunare e alle variazioni della luce e del colore nel cielo e sulle acque. A partire dagli anni Novanta il F. abbandonò la pittura dai toni chiari e dalla pennellata leggera degli inizi. Scelse di realizzare i suoi paesaggi attraverso una stesura materica del colore, sia nelle opere di maggiore impegno sia nei relativi e numerosi bozzetti preparatori di piccole dimensioni. Contemporaneamente sperimentò l'uso della tempera con sovrapposizioni di velature a olio (Ojetti, 1911, pp. 190 s.). Nel 1895, quando ormai, grazie alla sua personale produzione di paesaggista, si era ritagliato un ruolo di primo piano nel contesto artistico veneziano e nazionale, il F. entrò a far parte del comitato ordinatore dell'Esposizione internazionale d'arte della città di Venezia (la futura Biennale). Da quel momento partecipò a tutte le edizioni della Biennale veneziana, soprattutto come espositore (nel 1910 allestì una mostra individuale con 72 lavori), ma anche come commissario della sezione veneta (1905). Proprio la rassegna veneziana offrì al F., artista solitario e strettamente legato alla tradizione del naturalismo ottocentesco, la possibilità di confrontarsi con la ricerca internazionale. Il F. morì a Venezia il 18 maggio 1922.


GIGNOUS LORENZO


Nipote del noto pittore Eugenio Gignous, frequentò l'Accademia di Brera dove nel 1884 ottenne il premio Mylius per il paesaggio storico, quell’anno con soggetto libero, con una veduta della località di Sesto Calende sul Lago Maggiore (luogo dello sbarco di Garibaldi e dei reggimenti dei Cacciatori delle Alpi nel maggio 1859). Questo paesaggio ricorre con frequenza nel suo repertorio fino a diventare un tema caratteristico di tutta la sua produzione di forte matrice naturalista. Partecipò alle principali rassegne espositive nazionali dell’epoca affermandosi rapidamente come paesista con un repertorio di vedute del Lago Maggiore studiate dal vero in occasione dei soggiorni a Stresa, ospite di Eugenio Gignous che vi si trasferì con la famiglia dal 1887. All’intensa attività pittorica affiancò fino al 1922 l’impiego presso le Ferrovie dello Stato, grazie al quale ottenne importanti commissioni pubbliche.


GOLA EMILIO


Di nobili origini, è incoraggiato all'arte fin da adolescente dal padre Carlo, pittore dilettante. Nel 1873 consegue la laurea in ingegneria industriale al Politecnico di Milano; contemporaneamente si dedica alla pittura sotto la guida di Sebastiano De Albertis, completando la sua formazione con ripetuti viaggi nei Paesi Bassi e a Parigi. All'esordio all'Esposizione di Belle Arti di Brera nel 1879 segue una partecipazione costante alle rassegne nazionali, ma ottiene i maggiori riconoscimenti ufficiali a livello europeo. Apprezzato ritrattista fin dagli anni ottanta, tra i suoi soggetti preferiti ricorrono figure femminili della nobiltà milanese, rappresentate nella loro dimensione mondana, adottando però un naturalismo vigoroso. Alla produzione di ritratti si affianca un ricco repertorio di vedute milanesi e paesaggi brianzoli, tradotti con un'accensione cromatica che costituisce la cifra stilistica dell'artista. Attivo tra la Liguria e Venezia, nella produzione tarda si dedica all'esecuzione di marine condotte con grande sintesi formale e intensità espressiva.


GNECCHI FRANCESCO


Proveniente da una facoltosa famiglia di imprenditori della seta, è avviato agli studi di giurisprudenza presso l'Università di Pavia. Nel 1866 si arruola come volontario nella guerra contro l'Austria. Esercita la pittura in contemporanea all'attività di famiglia fino al 1878 e, in seguito, ricopre il ruolo di consigliere di amministrazione di importanti società lombarde. Iniziato agli studi artistici da Mosè Bianchi e Achille Formis, si dedica prevalentemente al paesaggio ricavando suggestioni dalle coeve ricerche del naturalismo lombardo. La sua ricca produzione di paesaggi – perlopiù tratti sul Lago Maggiore, sulla Riviera ligure, in Engadina – rivela un artista colto e aggiornato. Anche la costante presenza alle maggiori rassegne espositive milanesi e nazionali, dal 1881 fino al 1891, concorre a definire un'immagine professionistica della sua attività. L'amicizia con Luigi Scrosati favorisce il suo interesse per la pittura di fiori. Dal 1870 si dedica assiduamente al collezionismo di monete romane, pubblicando in collaborazione con il fratello Ercole alcuni opuscoli dedicati alla classificazione della sua raccolta. D'accordo con il fratello decise di occuparsi di monete romane, mentre quello si occupava di monete medievali italiane. Fondò, assieme al fratello ed altri appassionati, la Rivista italiana di numismatica, diretta inizialmente da Solone Ambrosoli e in seguito da lui e dal fratello Ercole. Nel 1892 partecipa alla fondazione della Società numismatica italiana assieme a vari studiosi di numismatica italiani tra cui Solone Ambrosoli, il fratello Ettore Gnecchi, il conte Niccolò Papadopoli, Antonino Salinas, Giulio Sambon, Costantino Luppi. Nel 1906 gli fu conferita la medaglia della Royal Numismatic Society di Londra.

Alla sua morte, nel 1919, la collezione numismatica contava circa 20.000 pezzi e nel 1923 fu acquisita dallo Stato per il Museo Nazionale Romano nella sede di palazzo Massimo alle Terme.


GRUBICY VITTORE


Nato nel 1851 a Milano da un barone ungherese e una nobile lodigiana, Vittore Grubicy De Dragon comincia, nel 1870 in Inghilterra, a lavorare come mediatore nel settore dell’arte contemporanea, proponendo opere di pittori scapigliati. Successivamente gestisce a Milano insieme al fratello Alberto una galleria d’arte attraverso la quale promuove anche dipinti di autori divisionisti. Nel 1884, in Olanda, comincia a dipingere da autodidatta, giungendo ad utilizzare negli anni successivi una tecnica divisionista, applicata in maniera non scientifica ma intuitiva ed emozionale. Abbandonata nel 1889 l’attività commerciale nelle mani del fratello, si dedica esclusivamente alla pittura e all’attività di critico e pubblicista. I suoi luoghi prediletti di lavoro sono la valle di Scalve, il lago di Lecco, la Liguria, Venezia e soprattutto Miazzina – sulle alture del lago Maggiore – dove soggiorna con frequenza dal 1886, ospitato anche da Achille Tominetti, pittore gravitante attorno alla Galleria Grubicy. Nel 1891 è tra i divisionisti che partecipano alla Prima Triennale di Brera, in seguito alla quale pubblica numerosi articoli e saggi per difendere dalle critiche le ragioni del “movimento”. Nel 1920 muore nella sua casa di Milano.


LILLONI UMBERTO


Nacque a Milano dove suo padre, di origine medolese, s'era trasferito una ventina d'anni prima a esercitarvi l'ebanisteria e il commercio dei mobili. La prima infanzia la trascorse in un tipico quartiere popolare milanese. All'età di 16 anni suo padre lo mise a dirigere lo stabilimento, ma per sua natura irrequieta, preferì intraprendere gli studi d'ingegneria navale, studi che interruppe per studiare disegno presso la scuola artigiana dell'Umanitaria. Durante questi studi scopre la propria vocazione alla pittura. Una vocazione aspramente contrastata dal burbero padre che gli tagliò i viveri e lo cacciò di casa. Nel 1915 si iscrisse all'Accademia di Brera. Suoi primi maestri furono lo scapigliato caricaturista Bignami e l'accademico cremoniano Rapetti. Infiammato dagli ideali socialisti il giovane Lilloni aumenta le preoccupazioni paterne partecipando a comizi, a scontri con la polizia, e finendo persino a in carcere a San Vittore. Nel 1917 viene arruolato nei reparti d'assalto della fanteria durante la prima guerra mondiale. Nel dopoguerra si iscrive nuovamente all'Accademia di Brera sotto la guida di Tallone e di Alciati. Nel 1922 gli viene conferito il premio del Pensionato Hayez. Da questo momento la cronistoria della sua vita coinciderà perfettamente con quella della sua pittura. Avverte anche lui il problema del superamento della pittura postimpressionista e, per una breve stagione, si avvicina alle idee e alle ricerche del "Novecento" accogliendo con originale atteggiamento poetico le lezioni degli antichi. S'avvede ben presto che la tendenza novecentesca è viziata da interessi extratattici ed è, in fondo, incongrua al suo temperamento. Riprende comunque lo studio del suo dilettissimo Emilio Gola, della grande tradizione pittorica lombarda. Ed ecco finalmente, intorno al 1930, le prime esperienze di quella "pittura a fondo chiaro" che diventerà la via regia dell'arte sua. Nel 1927 gli viene conferito il premio Principe Umberto. Dal 1927 al 1941 Lilloni ha insegnato all'Accademia di Brera, e dal 1941 al 1962 è stato titolare di cattedra all'Accademia di Belle Arti di Parma. Divenne amico del professore Oreste Marini, caposcuola del Chiarismo mantovano, che frequentò nella sua casa di Castiglione delle Stiviere, riprendendo pittoricamente i luoghi di origine del padre medolese. Lilloni non è mai stato un grande viaggiatore, tuttavia nel 1949, per suggerimento dell'amico Carlo Cardazzo, intraprese un viaggio in Svezia e soggiornò per alcuni mesi a Stoccolma. Negli anni 1970 pose la propria dimora in Svizzera, dove trascorse molto tempo dei suoi ultimi anni di vita. In quest'opera si riscontra una tendenza stilizzante di ispirazione orientale. Fu noto per essere tra i maggiori esponenti del chiarismo lombardo. La luminosità e la delicatezza cromatica caratterizzano i suoi dipinti, prevalentemente paesaggi. Una componente minore della sua pittura è costituita da una tendenza alla stilizzazione dei tratti usati nel descrivere la vegetazione, non dissimile dagli stilemi dell'arte giapponese, con cui Lilloni potrebbe essere venuto in contatto nella frequentazione della Caffè Mokador, luogo di ritrovo della cerchia di Persico, in cui circolavano frequentemente stampe orientali. Umberto Lilloni riposa al Cimitero Monumentale di Milano


MAGGI CESARE


Nato a Roma nel 1881 da genitori teatranti, è allievo di Vittorio Corcos a Firenze, di Gaetano Esposito a Napoli (1898), di Fernand Cormon a Parigi (1899). Conquistato dalla pittura di Giovanni Segantini, si reca al Maloja (1899-1900) e si dedica al divisionismo ritraendo paesaggi alpini engadinesi e valdostani, spesso vivacizzati dall’inserimento di figure e animali. Diventato amico del pittore Giacomo Grosso a Torino nel 1901, si orienta con successo verso il genere del ritratto, accantonando la tecnica divisionista. Pur prediligendo ancora le vedute d’alta montagna, amplia i propri soggetti impegnandosi anche nelle marine e nelle nature morte e utilizzando una tecnica che, ad accenti divisionisti, accosta una stesura ad impasto e a larghi tocchi di colore, risentendo tra il 1920 e il 1930 anche dell’influenza di “Novecento”. Nella fase tarda ritorna ad un naturalismo più illustrativo. Nel 1912 partecipa alla Biennale di Venezia con l’onore di una sala a lui interamente dedicata, mentre nel 1935 viene designato insegnante alla Cattedra di Pittura presso l’Accademia Albertina, carica che mantiene fino al 1951. Dieci anni più tardi Cesare Maggi muore a Torino.


MONTI CESARE


Cesare Monti nasce a Brescia nel 1891. Si reca giovanissimo a Parigi e vi trascorre due anni (1906-1908). Tornato a Brescia, studia pittura con Edoardo Togni, allievo di Gaetano Previati e si accosta alla tecnica divisionista. Nel 1911 si trasferisce a Milano ed inizia a frequentarvi il vivace ambiente artistico. Nel 1915 si sposa con Amelia Sanquirico e diventa socio della Famiglia Artistica milanese. In questi anni è assiduamente presente alle manifestazioni della Permanente di Milano e a quelle bresciane. Nel 1920 tiene una importante personale in una galleria d’avanguardia, denominata “Arte” o “degli Ipogei” di Milano ed è presente alla XII Biennale di Venezia. Vince nel 1921 il concorso per il Legato Brozzoni a Brescia. Nel ’22 conferma la presenza alla XIII Biennale di Venezia. Nel 1923 prende parte alla XIV Mostra di Ca’ Pesaro a Venezia. Nel ’24 è nominato socio onorario dell’Accademia di Brera e gli viene assegnato il Premio Magnocavallo. Nel ’25 espone alla III Biennale romana e tiene la prima mostra personale a Brescia. Nel 1926 partecipa alla I Mostra del Novecento Italiano alla Permanente di Milano. Dal ’27 conferma la presenza alle principali rassegne nazionali ed internazionali del Novecento Italiano. Nel ’29 si ripresenta nella II Mostra del Novecento Italiano. Nel 1930 vince il premio “Omero Soppelsa” per il paesaggio alla XVIII Biennale di Venezia e a Milano il Premio Sallustio Fornara. E’ presente nel 1931 alla I Quadriennale romana insieme ai novecentisti lombardi. Nel 1933 espone un pannello alla V Triennale di Milano. Nel 1937 è nominato Direttore della Famiglia Artistica. Nel 1939 è designato professore onorario all’Accademia di Carrara. Nel 1939 esegue la vetrata San Marco alla Cappella dell’Annunciata nell’Ospedale Maggiore di Niguarda. Nel 1939 e nel ’40 partecipa al Premio Bergamo. Continua ad esporre nelle principali manifestazioni nazionali, partecipando a tutte le Biennali di Venezia fino al 1950 (nel 1940, con una sala personale di 17 opere), alle Quadriennali di Roma del 1935, del 1939 e del 1952 e alle mostre Sindacali lombarde e nazionali. Continua ad esporre anche all’estero nelle rassegne di arte italiana. Muore a Bellano nel 1959, dopo una lunga malattia.


PASINETTI ANTONIO

Antonio Pasinetti nasce a Montichiari il 2 agosto 1863 da Paolo (1827-1892) e Laura Brisadola (1831-1897). Fin da bambino mostra uno spiccato interesse per il disegno e, nonostante le umili condizioni dei genitori, è avviato al mondo dell’arte con un primo apprendistato presso il pittore Luigi Campini (1816-1890). A dodici anni frequenta la Scuola Moretto di Brescia, quindi nel 1880 s’iscrive all’Accademia di Brera. Ottenuto il diploma di disegno, Pasinetti rinuncia a completare gli studi per trasferirsi a Verona (1882-83) alla scuola del pittore Napoleone Nani. Dal 1884 al 1886 insegna alla Scuola di Disegno di Salò, e qui fonda una Scuola d’Arti e Mestieri. Avendo declinato una cattedra in Sicilia, torna a Montichiari (1886) e stringe amicizia con il letterato Giuseppe Guerzoni. Si trasferisce a Padova nel 1887; nel frattempo ha soggiornato a Genova, Verona, Trento, Mantova, Venezia e sul Lago di Garda, sempre eseguendo ritratti e paesaggi dal vero. A partire dal 1889 risiede stabilmente a Milano ed entra in contatto con i principali artisti della città (Mosè Bianchi, Orlando Grosso, Cesare Tallone, Leonardo Bazzaro, Giovanni Segantini, Antonio Mancini, Francesco Michetti, Giuseppe Pellizza da Volpedo, Achille Secchi, Leonardo Bistolfi, Enrico Butti, Filippo Carcano), divide lo studio in via Solferino con lo scultore Paolo Troubetzkoy. Diviene amico di Giuseppe Zanardelli e ne frequenta la villa a Maderno (1890-94). In questo momento l’attività del pittore si concentra soprattutto sui ritratti per una facoltosa borghesia lombarda. Prosegue l’attività di ritrattista nello studio di via Carroccio a Milano. Sempre più interessato ad una pittura d’impronta naturalistica, Pasinetti trae ispirazione dai frequenti viaggi e dai soggiorni fuori Milano (a Caprera, sulle Alpi, in Val Camonica, sull’Adriatico, in Sicilia); ma è soprattutto Venezia, con la sua luce e i suoi monumenti, ad accoglierlo negli anni 1920-30. Verso il 1925 l’amicizia con Gian Emilio Malerba, Margherita Sarfatti e Arturo Tosi lo avvicina a “Novecento italiano”, il movimento artistico nato a Milano nel 1922. Del 1933 è il viaggio in Germania, Olanda, Danimarca e Svezia. Antonio Pasinetti si spegne il 13 maggio 1940.


PENAGINI SIRO


Nato a Milano nel 1885, si iscrive nel 1905 all’Accademia di Brera lasciandola l’anno seguente per trasferirsi a Monaco di Baviera, dove rimane fino al 1909 e frequenta la Reale Accademia, entrando in contatto con le contemporanee tendenze artistiche europee, con la pittura dei fauves e degli espressionisti. Ritorna in Italia e vive fino al 1913 a Milano e a Caravate, in provincia di Varese, nel 1914 si trasferisce a Terracina, mentre tra il 1918 e il 1919 soggiorna a Positano, dove si dedica alle nature morte, soprattutto con pesci e frutta, utilizzando colori solari e composizioni misurate. Rientrato a Milano nel 1920, si isola volontariamente dal panorama artistico “ufficiale”, anche se partecipa alle Biennali di Venezia dal 1920 al 1948. Nel 1923, dopo essersi sposato, si trasferisce a Solcio, sul lago Maggiore, in una casa rustica che restaura e amplia. Partecipa alla prima e alla seconda Mostra del Novecento Italiano, ma condivide solo alcuni aspetti di questo movimento; egli si oppone allo sfaldamento impressionista della forma e restituisce sulla tela un’architettura del paesaggio, fatta di pesi e volumi. Nel 1937 partecipa alla decorazione del Palazzo di Giustizia di Milano, affrescando Mosè che detta le leggi. Muore a Solcio nel 1952.


PUGLIESE LEVI CLEMENTE


Nato a Vercelli nel 1855, si iscrive all’Accademia Albertina di Torino dove ha come maestro Enrico Gamba. Inizia a dipingere soggetti di genere, ma il determinante incontro con Antonio Fontanesi – che Pugliese Levi ospita a Cannobio nel 1881 – lo conduce alla pittura di paesaggio, affrontata con un’attenzione rivolta, oltre che a Reycend, Avondo e Delleani, anche agli impressionisti osservati durante i ripetuti viaggi a Parigi. Dal 1906, trasferitosi a Milano, si accosta progressivamente al tardo naturalismo lombardo per mezzo di una pittura più fluida e prediligendo toni intensamente luminosi che si riallacciano sia a Fontanesi sia ad esempi divisionisti liberamente interpretati. In questo periodo iniziano i suoi lunghi soggiorni estivi sul lago d’Orta – dove nel 1920 acquista una villa a Viganallo – soggetto predominante nei suoi dipinti insieme alle vedute alpine dovute alle frequenti villeggiature a Macugnaga, Courmayeur, Zermatt e Dolomiti. Clemente Pugliese Levi muore a Milano nel 1936.


RANZONI DANIELE


Nato a Intra, sul lago Maggiore, nel 1843 dal calzolaio Francesco e dall’ostetrica Elisabetta Franzosini, a soli dieci anni e fino al 1856 frequenta il corso serale di disegno del pittore Luigi Litta. Nel 1856, appena tredicenne, Ranzoni ottiene l’iscrizione alla Scuola di Disegno della I.R. Accademia di Brera, sostenuto finanziariamente da alcuni signori di Intra. Tra il 1858 e il 1864 alterna la frequentazione dell’Accademia Albertina a Torino a quella di Brera a Milano. Nel 1864 inizia un periodo di intensa attività pittorica ad Intra, dove l’antiquario Scavini gli presta una soffitta dove sistemare lo studio; inizia a frequentare l’aristocrazia internazionale che abita le ville del lago Maggiore (i marchesi Della Valle di Casanova, i baroni Francfort a Pallanza, i principi Troubetzkoy). Con il fotografo e pittore Giacomo Imperatori fonda a Intra il “Circolo dell’Armonia”, un gruppo scapigliato di artisti, musicisti, intellettuali. Nel 1868 si reca a Milano, dove partecipa al movimento della Scapigliatura e viene ospitato da Tranquillo Cremona. Tra il 1873 e il 1877 Ranzoni frequenta con assiduità la villa dei principi Troubetzkoy a Ghiffa, dove invita gli amici scapigliati e diviene maestro dei tre figli Piero, Paolo, Luigi. Nel 1877, su invito della famiglia inglese dei Medlycott in villeggiatura presso i Troubetzkoy, Daniele Ranzoni si trasferisce in Inghilterra, nella campagna del Somerset, dove si afferma come pittore della nobiltà e della nuova borghesia. Nel 1879, però, in seguito al rifiuto dei suoi dipinti presentati all’Annual Exhibition of Works of Living Artists, il pittore, amareggiato, ritorna a Milano. Se il 1880 si manifesta come un anno di grande fervore creativo, l’anno seguente rappresenta tuttavia l’inizio di un grave periodo di crisi per l’artista, segnato da fasi alterne di inerzia e di attività, culminate nel ricovero in un ospedale psichiatrico. Dopo aver soggiornato tra il 1885 e il 1886 alle isole di Brissago, ospite dei coniugi Saint-Lèger, vive in solitudine a Intra, dove muore nel 1889. Daniele Ranzoni ha contribuito in modo decisivo all’evoluzione della pittura lombarda nel genere del ritratto, rinnovando il linguaggio figurativo secondo le ricerche “scapigliate”: evocando il personaggio ritratto come fatto luminoso e disgregandone la forma per fonderla nell’atmosfera circostante.


ROSAI OTTONE


Grande pittore e incisore, nasce a Firenze il 28 aprile del 1895. Terzo di quattro figli di un intagliatore, con una spiccata attitudine per l’arte, viene iscritto all’Istituto di Arti Decorative di Piazza Santa Croce per studiare disegno ornato. Di temperamento impulsivo ed irrequieto, Ottone Rosai viene presto espulso dalla scuola, ma continua da autodidatta la sua preparazione artistica senza trascurare la letteratura. Ottone Rosai a sedici anni è già in grado di esporre le sue incisioni, ma al chiuso delle aule o dello studio, preferisce osservare le strade della sua città e la gente che frequenta la bottega del padre. Nel 1913, a soli diciotto anni, Ottone Rosai si avvicina al Movimento Futurista, vede le opere di Umberto Boccioni, traendone ispirazione e diventa amico di alcuni esponenti del gruppo fra cui Soffici, Carlo Carrà e Severini. Dall’aprile al maggio dell'anno dopo Ottone Rosai partecipa alla "Esposizione libera futurista" della Galleria Sprovieri a Roma, interviene ad alcune serate futuriste ed incomincia a collaborare alla rivista artistica “Lacerba”. Allo scoppio della prima guerra mondiale, aderendo alla filosofia futurista, si arruola come volontario ed è presto inviato al fronte. L'esperienza reale della guerra, le sue vicissitudini personali e le convinzioni politiche lo fanno aderire ai "Fasci Futuristi" di Marinetti, per opporsi ai politici che avrebbero voluto "mutilare", come si diceva allora, "la vittoria italiana" e che precedono i "Fasci di Combattimento" di Mussolini. Dopo la guerra, Ottone Rosai continua nella elaborazione di un proprio linguaggio pittorico, costruito sulle precedenti esperienze futuriste, cubiste e metafisiche. Nelle sue opere del periodo, si nota la vicinanza di Carlo Carrà e di Giorgio Morandi, l'ammirazione per Paul Cézanne e per il Quattrocento toscano, del quale utilizza un'antica tecnica, preparando il colore mescolato a lattice di fico come legante per la tempera. I soggetti dei quadri del pittore fanno riferimenti alla realtà ed all’uomo, sono nature morte, paesaggi e composizioni con figure. Ottone Rosai ama riprendere i quartieri popolari di una Firenze minore, dimessa ed angusta, le viuzze ed i suoi omini nelle osterie, dove il pittore sa catturare elementi metafisici. La morte del padre, suicidatosi per debiti, nel 1922, lo costringe a lavorare nel laboratorio di falegnameria della famiglia, rallentando la sua produzione di pittore, per raddrizzare la difficile situazione economica dei suoi. Ottone Rosai raggiunge finalmente il successo tanto atteso nel 1932 con la personale nella sua città, presso la Galleria di Palazzo Ferroni. Ottone Rosai firma il "Manifesto Realista" in contrapposizione all’idealismo di Gentile, manifesto che esalta la cultura e l'arte fascista, ma dipinge ritratti antiretorici di un'umanità di "vinti". E' questo tipo di pittura che ha dato a Rosai la fama, ma anche l'accusa di "provincialismo" e di facile "bozzettismo". Nel 1939 Ottone Rosai viene nominato Professore di figura disegnata presso il Liceo Artistico e nel 1942 gli viene assegnata la cattedra di pittura all’Accademia di Firenze. A partire dal 1950 si fa conoscere in ambito internazionale, partecipando a rassegne artistiche a Zurigo, Parigi, Londra ed a Monaco di Baviera, la sua attività espositiva si fa più intensa, come la sua pittura che lo assorbe completamente. Partecipa ad una mostra sugli artisti italiani a Madrid e ad importanti collettive sul Novecento a New York. Un'esposizione organizzata a Firenze girerà poi nei musei di molte città tedesche. Nel 1956, all'interno della Biennale di Venezia, viene allestita una grande retrospettiva dell'opera di Ottone Rosai, che continua ad esporre a Bologna e a Trieste, fino al 13 maggio del 1957 giorno della sua morte per un infarto che lo coglie ad Ivrea dove stava curando l’allestimento di una sua nuova personale.


SIRONI MARIO


Nato a Sassari nel 1885, ben presto la sua famiglia si trasferì a Roma, dove Sironi, abbandonati gli studi di ingegneria, iniziò a frequentare l'Accademia di Belle Arti e lo studio di Giacomo Balla, stringendo amicizia anche con Gino Severini e Umberto Boccioni. Già dal 1914, trasferitosi a Milano, si avvicinò al Futurismo, di cui condivise l'esperienza bellica di volontario ciclista a fianco di Marinetti e Sant'Elia. Nei primi anni venti, la sua pittura restò di tipo futurista anche se, celatamente, nel suo stile si stavano facendo già strada forme sempre più monumentali (Paesaggio urbano, 1921), tendenti al metafisico, di cui diede una personale interpretazione nelle celebri periferie. Nel 1920 Sironi firmò con Leonardo Dudreville, Achille Funi e Luigi Russolo il manifesto Contro tutti i ritorni in pittura, che contiene in nuce le tesi poi fatte proprie dal gruppo Novecento, di cui Sironi fu uno dei fondatori, nel 1922. Il Richiamo all'ordine di Sironi si manifesta in maniera differente rispetto a quella che gli altri artisti portano avanti negli stessi anni: è più tenebroso e cupo e dunque sarà impossibile scorgere nelle sue tele quelle vedute magiche, chiare e cristalline, tipiche del grande quattrocento italiano, che gli altri novecentisti invece promuovono nei loro lavori. Al contrario della maggior parte degli artisti del Novecento, per lui la stilizzazione non divenne mai cliché e, sino all'ultimo, seppe trovare nuove forme espressive per la propria ricerca. Dall'inizio degli anni trenta gli interessi artistici di Sironi si moltiplicarono, spaziando dalla grafica alla scenografia, dall'architettura alla pittura murale (Il Lavoro, 1933, per la quinta Triennale di Milano), dal mosaico all'affresco. La sua attività apparve sempre più finalizzata alla realizzazione di opere monumentali e celebrative del regime fascista, che si nutrono del recupero della tradizione aulica dell'arte italiana (L'Italia fra le Arti e le Scienze, 1935, Università di Roma). Nel 1932 fu l'artista più impegnato per la realizzazione della Mostra della Rivoluzione Fascista che si tenne al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Tornato nel 1940 alla pittura da cavalletto, procedette in una ricerca che dalla densa corposità e plasticità delle opere precedenti sfociò in talune montagne e tele a composizione multipla, con risultati affini a quelli dell'astrattismo. Nel dopoguerra la pittura di Sironi si fece cupa e drammatica, abbandonando il carattere monumentale e di grande eloquenza degli ultimi anni a favore di una diversa e più dimessa concezione spaziale, resa su tele di piccole dimensioni (La città, 1946, Galleria Narciso, Torino). Morì a Milano il 13 agosto 1961. L'anno seguente, nel 1962, venne allestita un'ampia e rigorosa retrospettiva a Venezia, alla XXXI Biennale.


SOFFICI ARDENGO


Il poeta, scrittore e pittore Ardengo Soffici nasce a Rignano sull'Arno (Firenze) il 7 aprile 1879. Nella primavera del 1893 si trasferisce a Firenze con la famiglia, assistendo alla rovina finanziaria del padre, senza poter far nulla, che porta la famiglia in uno stato di povertà. I primi studi sono indirizzati verso l'arte, ma presto vengono interrotti perchè ha la necessità di cercarsi un lavoro. Trova un impiego presso lo studio di un avvocato fiorentino. A questo periodo risalgono i contatti di Soffici con un ristretto gruppo di giovani artisti che si muovevano intorno all'Accademia delle Arti e alla Scuola del Nudo, dove erano maestri Giovanni Fattori e Telemaco Signorini. Attraverso la pittura giunge quindi nel mondo della cultura e come autodidatta diviene scrittore. E' uno dei primi intellettuali italiani a trasferirsi a Parigi, per entrare in contatto con le correnti più innovative del periodo. Negli anni tra il 1899 e il 1907 vive quindi nella capitale francese. Qui lavora come illustratore: è malpagato e conduce una vita di stenti e rinunce. Ha tuttavia la possibilità di incontrare sia artisti emergenti che già affermati come Guillaume Apollinaire, Pablo Picasso e Max Jacob. Importanti sono inoltre gli incontri con artisti e scrittori italiani quali Giovanni Vailati, Mario Calderoni e Giovanni Papini; con quest'ultimo Soffici stringerà, al ritorno in Italia, una forte amicizia, nonostante la diversità di carattere. Torna quindi in Italia e partecipa al movimento della rivista "Leonardo". Nel 1910 ritorna a Parigi dove viene a conoscenza dell'opera di Arthur Rimbaud, poeta allora quasi ignoto in Italia: nel 1911 pubblicherà nei Quaderni de "La Voce" una monografia su di lui. Sempre su "La Voce" Soffici è protagonista di un violento attacco al Futurismo; diventerà poi un seguace di Marinetti, cogliendo per la propria produzione poetica la sua retorica e la tecnica dell'analogia. In "Lacerba", rivista - il cui primo numero esce il giorno 1 gennaio 1913 - che fonda assieme a Papini, si batte, anche con la produzione di opere pittoriche, per la riduzione del Futurismo e Cubismo. Ardengo Soffici partecipa come volontario alla prima guerra mondiale. Nel dopoguerra è uno dei più decisi fautori del ritorno all'ordine: si accampa su posizioni contrassegnate da deciso sciovinismo culturale, dalla esaltazione dei modelli classici (soprattutto il Quattrocento italico) e da scelte tematiche con forti accenti giornalistici. Ardengo Soffici muore a Forte dei Marmi (Lucca) il 19 agosto 1964.


TOMEA FIORENZO


Ultimo di dieci figli, nel 1920, dopo la scomparsa del padre, a soli 12 anni assieme al fratello Giovanni si trasferisce a Milano ad esercitare vari mestieri. Tornato nell'estate a Zoppè di Cadore, conosce un pittore veronese di nome Masotto, che gli regala dei residui di colori con i quali inizia a disegnare le prime figure, e lo informa dell'esistenza di un'Accademia a Verona. Giunge a Verona nel 1926 e, sempre con il fratello, si dedica al piccolo commercio ambulante. Qui si iscrive ai corsi serali dell'Accademia Cignaroli e stringe amicizia con Giacomo Manzù e Renato Birolli. Nel 1928, alla fine dei due anni di corso, ritorna a Milano dove conosce Aligi Sassu, Bruno Cassinari, Domenico Cantatore e Francesco Messina. Determinante è l'incontro con Edoardo Persico, critico napoletano, giunto a Milano da Torino dopo l'esperienza con Il Gruppo dei Sei. Grazie a Persico, Tomea viene a conoscenza delle opere di Carlo Carrà, di Ottone Rosai, della pittura metafisica, dell'Impressionismo, di Paul Cézanne e delle lettere di Vincent van Gogh. Nel 1931 viene chiamato alle armi e presta servizio militare a Firenze nel 7º Genio. Nel 1932 Persico organizza presso la Galleria il Milione una mostra collettiva alla quale partecipano Tomea, Manzù, Birolli, Cortese e Grosso. Nell'autunno del 1934 si reca a Parigi assieme al suo amico Aligi Sassu e vi rimane per circa sei mesi. Qui può finalmente studiare dal vivo le opere degli Impressionisti, di Cézanne, di Van Gogh, di James Ensor. Incontra parecchi pittori italiani: Gino Severini, Giorgio de Chirico, Achille Funi, Filippo de Pisis, Massimo Campigli, Renato Guttuso, Orfeo Tamburi, Leonor Fini, Lionello Venturi, Vittorio Schweiger. Al suo ritorno, nel 1935, si stabilisce definitivamente a Milano e inizia la stagione delle grandi mostre: infatti, nel 1936 espone con Manzù, Sassu, Gabriele Mucchi e la Wiegmann alla Galleria La Cometa di Roma. Nel 1937 vince la Medaglia d'oro del Ministero dell'Educazione alla VIII Mostra sindacale lombarda, al Palazzo della Permanente di Milano, per il quadro Candele e Maschere. Nel dicembre dello stesso anno allestisce la prima personale presso la Galleria la Cometa di Roma, presentata da Carlo Carrà. Partecipò nel 1939 alla prima mostra del Gruppo di Corrente (che prese il nome dal giornale fondato da Ernesto Treccani). Nell'ottobre del 1940 espone con successo presso la Galleria Barbaroux di Milano. Nel 1942 partecipa alla XXIII Biennale d'arte di Venezia, con diciannove opere in una sala personale a lui riservata. Nel 1949-1950, Tomea aderisce al progetto della importante collezione Verzocchi, sul tema del lavoro, inviando, oltre ad un autoritratto, l'opera Il raccolto dell'orzo. Il 1954 è l'anno del Premio Marzotto, con un secondo posto. Nel 1955 tiene una personale alla Mostra Artisti d'Italia a Milano. Nel 1956 gli viene riservata una sala alla Biennale d'arte di Venezia e vince il secondo premio al Premio del Maggio di Bari e il primo Premio alla Mostra d'arte sacra dell'Antoniano di Bologna. Nello stesso anno viene eletto Sindaco di Zoppè, carica che manterrà fino alla morte. Tra gli anni 1955-1957 si colloca una particolare produzione pittorica detta Finestre, in cui Tomea tratta due temi a lui cari: il paesaggio e la natura morta. Il 1958 è un anno assai importante per la carriera artistica di Fiorenzo Tomea: nel dicembre viene inaugurata la chiesa di Santa Barbara a Metanopoli, presso San Donato Milanese, ove l'intera parete di fondo è ricoperta dal grande mosaico di Tomea intitolato Il Calvario, opera che gli era stata commissionata da Enrico Mattei, allora presidente dell'ENI. È un'opera monumentale quella che Fiorenzo Tomea riesce a terminare, anche se ormai i sintomi della malattia che lo affligge, lo costringono a periodi sempre più lunghi di riposo. Il Calvario misura 800 metri quadrati ed è l'elemento centrale in una chiesa che ospita lavori di altri artisti: Giò Pomodoro e Arnaldo Pomodoro per il portale, Pericle Fazzini per la Via Crucis, Bruno Cassinari per la pala della Madonna della Speranza, Franco Gentilini per la cappella di Sant'Antonio. Nei primi mesi del 1960 Tomea non riesce più a produrre nulla; in una pausa della malattia Aglauco Casadio riesce a girare un documentario sulla vita e le opere di Tomea, lavoro di grandissima sensibilità che ottiene il Primo Premio alla III Mostra internazionale del film sull'arte di Venezia. Tomea viene ricoverato in clinica a Milano, ove muore il 16 novembre 1960. Ora è sepolto a Zoppè di Cadore.


TOSI ARTURO


Nato da una famiglia di industriali, studia alla Scuola Libera di Nudo a Brera e poi, per due anni, con Adolfo Feragutti-Visconti, formandosi nel clima della Scapigliatura sulle opere di Daniele Ranzoni e Tranquillo Cremona. Nel 1891 esordisce alla Permanente di Milano col dipinto Testa di bambina ammalata. Nel 1909 partecipa, per la prima volta, alla Biennale di Venezia nella quale sarà presente fino al 1954; nel 1911, espone a Monaco di Baviera ed è presente all'Esposizione Internazionale di Roma. La conoscenza dell'opera di Cézanne, del 1920, lo indirizza verso la pittura del paesaggio en plein air. Nel 1922 è premiato con medaglia d'oro dal Ministero della Pubblica Istruzione ed espone alla "Fiorentina Primaverile" una serie di paesaggi; nel 1923 espone alla Galleria Pesaro di Milano, nel 1924 partecipa a Bruxelles alla mostra L'Art Italien au Cercle Artistique, nel 1925 è tra i fondatori della corrente artistica "Novecento", partecipando alle mostre della Permanente a Milano nel 1926 e nel 1929. Nel 1926 espone a Brighton, nel 1927 a Zurigo, Lipsia, Amsterdam e Ginevra, nel 1929 a Berlino e a Parigi, nel 1930 a Basilea, Buenos Aires e Berna, nel 1931 a Stoccolma, Baltimora e Monaco, nel 1933 a Stoccarda, Kassel, Colonia, Berlino, Dresda e Vienna. Dal 1928, alla Permanente di Milano, è membro del comitato d'onore, presieduto dal ministro Bottai, delle mostre del Sindacato regionale fascista della Lombardia. Nel 1931 ottiene il premio della fondazione Crespi alla I Quadriennale di Roma e, a Parigi, il Grand Prix della pittura dove torna nel 1937, per partecipare all'Esposizione mondiale; nel 1941 e nel 1942 espone al III e IV Premio Bergamo. Nel 1949-1950, Tosi aderisce al progetto della importante collezione Verzocchi, sul tema del lavoro, inviando, oltre ad un autoritratto, l'opera Terre arate. Nel 1951 il Comune di Milano gli dedica una mostra antologica premiandolo con una medaglia d'oro. Alla sua morte, la Biennale di Venezia gli dedica una mostra commemorativa, esponendo sessanta opere. È sepolto nella tomba di famiglia nel cimitero di Rovetta. Suoi dipinti sono conservati nei Musei d'Arte Moderna di tutto il mondo. Gli è stato dedicato anche il Liceo scientifico statale di Busto Arsizio.


TOZZI MARIO


Mario Tozzi, nato a Fossombrone presso Urbino nel 1895, trascorre l’infanzia e l’adolescenza a Suna, sul lago Maggiore, dove il padre è medico condotto. Iniziati gli studi di chimica all’Istituto Cobianchi di Intra, li interrompe per seguire i corsi dell’Accademia di Belle arti di Bologna che conclude nel 1915, ottenendo un premio dal Ministero della Pubblica Istruzione. Subito dopo la Prima Guerra Mondiale, alla quale partecipa come volontario, conosce sul lago Maggiore la parigina Marie-Thérèse, sua futura moglie, e si stabilisce nella capitale francese, iniziandovi la sua carriera artistica. Qui espone nel 1920 al Salon des Indipendants e viene subito notato con favore dalla critica. Da allora partecipa regolarmente e con crescente successo anche al Salon d’Automne e a quello delle Tuileries. Dal 1920 inizia a soggiornare, durante i periodi estivi, nella casa della moglie a Lignorelles, in Borgogna. In Italia, dove a Pallanza nel 1923 tiene la sua prima personale al Museo del Paesaggio, esporrà dietro invito alle Biennali di Venezia, alle mostre del Novecento italiano e alle Quadriennali romane. Nel 1926 fonda a Parigi il “Group de sept” (“Gruppo dei sette”), riunendo con sè i principali artisti italiani residenti nella città: Campigli, De Pisis, De Chirico, Savinio, Paresce e Severini. A partire dal 1927 Mario Tozzi inaugura una fortunata stagione di partecipazione a diverse esposizioni d’arte internazionali, mentre negli anni 1936-38 si dedica anche all’affresco, realizzando a Roma la decorazione del salone centrale del comando generale della Milizia. Ma proprio nel 1936 la sua salute comincia a peggiorare e l’artista, che dirada sempre più l’attività espositiva ed è frequentemente costretto all’inattività, alternerà fino al 1944 soggiorni a Parigi, periodi estivi a Suna sul lago Maggiore, permanenze a Roma. Nel 1938 lavora alla decorazione del Palazzo di Giustizia di Milano. Migliorate le sue condizioni fisiche, riprende a dipingere e, nel 1958, una esposizione personale alla Galleria Annunciata di Milano costituisce per lui una vera e propria “resurrezione” che lo inserisce nuovamente nella cerchia dei maestri del Novecento italiano. Nel 1971 si trasferisce definitivamente a Parigi, dove vive la figlia, in seguito a intimidazioni subite a Suna da parte di una non ben definita “Associazione per la difesa del pittore”. Morirà nel 1979 a Saint-Jean-du-Gard, in Borgogna. Nel 1996, dopo la grande mostra allestita a Pallanza nel centenario della nascita di Mario Tozzi, il fratello Arnaldo dona al Museo del Paesaggio 19 dipinti.


VERNIZZI RENATO


Dal 1922 frequenta l'Accademia di Belle Arti di Parma. Nel 1927 si trasferisce a Milano ed entra in contatto con la pittura del Novecento italiano, che presto abbandona a favore del chiarismo. Nei primi anni '30 si trasferisce a Milano e si avvicina al movimento del Chiarismo lombardo venendo a contatto con Adriano Spilinbergo, Angelo Del Bon, Umberto Lilloni e Birolli, condividendone idee e spazi nella casa dei pittori in Via Garibaldi 89. Nel 1934 partecipa alla Settimana dell'arte del quotidiano milanese L'Ambrosiano, dove viene notato dalla critica. È l'inizio di un periodo fortunato che culmina nel 1936 con la partecipazione alla XX Esposizione Internazionale d'arte della città di Venezia. Nel 1940 la Galleria d'arte moderna di Milano acquista una sua opera esposta in una sede del Sindacato fascista belle arti. Nel 1941 vince il premio Bergamo per il paesaggio con il dipinto Carrozzella al mare. Si sposa con la pittrice Maria Teresa Cavalli, da cui nasceranno i figli Luca e Isabella. Dopo la seconda guerra mondiale si dedica a ritratti e soggetti intimisti e si avvicina al Cenacolo di via Bagutta. Nel 1955 ha inizio la sua attività didattica all'istituto d'arte Paolo Toschi di Parma. Nel 2014 viene inaugurato all'interno del Palazzo Sanvitale di Parma il museo Renato Vernizzi, allestito in continuità col museo Amedeo Bocchi; vi sono esposte numerose opere donate dai suoi figli alla Fondazione Monte Parma nel 2009.


WOLF FERRARI TEODORO


Dopo aver studiato all’Accademia di Belle Arti di Venezia, con maestri del calibro di Guglielmo Ciardi, si trasferisce a Monaco di Baviera dove assimila la cultura delle Secessioni ed espone le sue opere in diverse mostre. Molto influenzato dal panorama del Modernismo e delle arts&crafts, egli si interessa non solo alla pittura ma anche al vetro, alla realizzazione di gioielli, vetrate, arredamenti e altri oggetti, mostrando subito la sua volontà di sperimentare. Tornato a Venezia entra a far parte del gruppo L’Aratro insieme ad altri giovani artisti; basando le loro opere sulla decorazione essi volevano rivendicare all’arte una valenza artigianale. In questi anni Teodoro Wolf Ferrari fu coinvolto in due esperienze, quella “secessionista” di Ca’ Pesaro e quella più internazionale della Biennale. Grazie alla sua presenza sempre attiva in città e alla sua attenzione alle arti applicate fu un artista all’avanguardia e diventò un importante punto di riferimento nel panorama artistico veneziano. Fin da piccolo l’artista era solito trascorrere le vacanze nella cittadina trevigiana di San Zenone degli Ezzelini; il legame con questo paese diventò sempre più intenso, tanto che negli anni Venti egli vi si traferì stabilmente e qui restò fino alla morte. Teodoro Wolf Ferrari conosceva alla perfezione questa cittadina e ogni collina, monte, famiglia, casa gli erano familiari. L’artista si dedicò alla rappresentazione di queste terre a lui care e scelse il vicino monte Grappa come protagonista di molte composizioni. Egli come i pittori impressionisti era solito rappresentare i soggetti da molteplici angolazioni e con diverse condizioni atmosferiche, quasi a voler mostrare quanto uno stesso luogo variasse e fosse mutevole. Nelle sue opere grande importanza per la resa dei paesaggi è data ai colori; caldi come gli arancioni e i marroni o freddi nelle varie tonalità di verde, essi sono stesi ora con precisione e piccole pennellate di tocco, ora con pennellate sicure e veloci apparendo così corposi e grumosi. In ogni caso la rappresentazione è di grande effetto, in grado di rendere la natura e le sue variazioni. Si tratta di una pittura completamente diversa rispetto a quella secessionista maturata a Venezia; una pittura più emotiva, sicuramente influenzata dal rapporto intimo che il pittore aveva con questi luoghi, una pittura testimone dell’interiorità di questo artista. Nelle sue opere Teodoro Wolf Ferrari è in grado di rappresentare il paesaggio nella sua essenza e di metterne in evidenza aspetti come la vegetazione, la luce e le sue variazioni, i colori, le particolari condizioni metereologiche. La sensazione, osservando alcuni paesaggi del periodo sanzenonese, è quella di percepire effettivamente il vento, la luce del sole, la freschezza della natura dopo la pioggia, l’odore dei campi, della terra e dei fiori; una pittura che parla di natura, di vita all’aperto e di lavoro, un paesaggio che è in grado di suscitare emozioni e poeticità.


Armonie Verdi. Paesaggi dalla Scapigliatura al “Novecento” - Opere d’arte della Fondazione Cariplo e del Museo del Paesaggio di Verbania - Palazzo Viani Dugnani - Verbania - 24 marzo- 30 settembre 2018 - a cura di Elena Pontiggia e Lucia Molino


ELENCO OPERE


I. SCAPIGLIATURA, DIVISIONISMO, NATURALISMO


1. Ranzoni Daniele, Bosco 1867-68, olio su carta, cm 30,2x22 (MUSEO DEL PAESAGGIO)
2. Ranzoni Daniele, Paesaggio fluviale 1872, acquarello, cm 27,4x21,2 (MUSEO DEL PAESAGGIO)
3. Ranzoni Daniele, Villa Ada 1880, acquarello, cm 30,5x41,8 (MUSEO DEL PAESAGGIO)
4. Gignous Lorenzo, Veduta del Lago Maggiore 1885 – 1890, olio su tela, cm 100 x 190 (GALLERIE D’ITALIA)
5. Mosé Bianchi, Interno rustico 1889 – 1895, olio su tela, cm 101 x 135 (FONDAZIONE CARIPLO)
6. Ashton Federico, Cascata del Toce in Valle Formazza 1890, olio su tela, cm 59,8x33,5 (MUSEO DEL PAESAGGIO)
7. Costa Giovanni Battista, Strada in pianura 1890, olio su tela, cm 70 x 100 (FONDAZIONE CARIPLO)
8. Cressini Carlo, Le gelide acque del lago di Märjelen 1908 ca., olio su tela, cm 106x198 (MUSEO DEL PAESAGGIO)
9. Gnecchi Francesco, Fondo Toce (Maggiore) o Il Sempione dal Lago Maggiore 1884, olio su tela, cm 75,5x149 (Gallerie d'Italia)
10. Grubicy Vittore, Cimitero di Ganna, 1894, olio su tela, cm 32,4x50,8 (MUSEO DEL PAESAGGIO)
*11. Maggi Cesare, Nevicata 1908, olio su tela, cm 38x45 (MUSEO DEL PAESAGGIO)
*11. Maggi Cesare, Neve 1908, olio su tavola, cm 26x39 (MUSEO DEL PAESAGGIO)
*11. Maggi Cesare, Nevicata 1911, olio su tavola, cm 25x36 (MUSEO DEL PAESAGGIO)
12. Fornara Carlo, Passo verso la luce, olio su cartone, cm 19,5x25,3 (MUSEO DEL PAESAGGIO)
13. Fornara Carlo, I due noci 1920, olio su tela, cm 44x56 (MUSEO DEL PAESAGGIO)
14. Cinotti Guido, Marina, olio su cartone, cm 50x61 (MUSEO DEL PAESAGGIO)
15. Pugliese Levi Clemente, Cave di Alzo (Lago d’Orta), olio su tela, cm 66x87,5 (MUSEO DEL PAESAGGIO)
16. Gola Emilio, Colline in Brianza 1915-1920, olio su tela, cm 80 x 125,5 (FONDAZIONE CARIPLO)
17. Gola Emilio, Paesaggio brianzolo 1915, olio su cartone, cm 93 x 69 (FONDAZIONE CARIPLO)
18. Fragiacomo Pietro, Armonie Verdi 1920, olio su tela, cm 78,5 x 117,5 (FONDAZIONE CARIPLO)
19. Wolf Ferrari Teodoro, San Francesco del Deserto 1922, olio su tavola, cm 44,8 x 57,5 (FONDAZIONE CARIPLO)
20. Pasinetti Antonio, Edolo – Fiume Oglio 1924, olio su tela, cm 70x100 (FONDAZIONE CARIPLO)
21. Tozzi Mario, Casetta a Suna 1914, olio su tela, cm 27,5x21,5 (MUSEO DEL PAESAGGIO)
22. Tozzi Mario, Cimitero di Suna 1915, olio su tela, cm 62x91 (MUSEO DEL PAESAGGIO)
23. Tozzi Mario, La passeggiata 1915, olio su tela, cm 45x29 (MUSEO DEL PAESAGGIO)
24. Tozzi Mario, Neve a Lignorelles 1921, olio su tela, cm 55x43 (MUSEO DEL PAESAGGIO)
25. Tozzi Mario, Paesaggio di Borgogna 1922, olio su tela, cm 30,5x38 (MUSEO DEL PAESAGGIO)

II. GLI ARTISTI DEL NOVECENTO ITALIANO


26. Bucci Anselmo, Il governo dei cavalli 1916, olio su tela, cm 40 x 74,3 (FONDAZIONE CARIPLO)
27. Rosai Ottone, Paesaggio 1922, olio su tela, cm 100x135 (FONDAZIONE CARIPLO)
28. Monti Cesare, Corenno Plinio - Lago di Como 1924, olio su tela, cm 73,5 x 94 (FONDAZIONE CARIPLO)
29. Carpi Aldo, Ornavasso 1923, olio su tela, cm 60x80 (MUSEO DEL PAESAGGIO)
30. Carpi Aldo, Guardando in alto 1925, olio su tela, cm 55,3x70 (FONDAZIONE CARIPLO)
31. Sironi Mario, Il lago 1926, olio su tela, cm 50x57,5 (MUSEO DEL PAESAGGIO DEPOSITO)
32. Donghi Antonio, Convento 1928, olio su tela, cm 40 x 50 (FONDAZIONE CARIPLO)
33. Barbieri Contardo, Baite di Caspoggio 1929, olio su tavola, cm 35 x 44 (FONDAZIONE CARIPLO)
34. Barbieri Contardo, Paesaggio alpino 1929, olio su tela, cm 70 x 87,5 (FONDAZIONE CARIPLO)
35. Cascella Michele, Pioppi 1930, pastello su carta, cm 55x45 (MUSEO DEL PAESAGGIO)
36. Penagini Siro, Paesaggio Invernale 1930, olio su tela, cm 100x140 (MUSEO DEL PAESAGGIO)
37. Penagini Siro, Piazza Santo Stefano 1935, olio su tela, cm 100x160 (MUSEO DEL PAESAGGIO)
38. Tosi Arturo, Cipresso a Zoagli, 1927, olio su assicella, cm 44,5x35,5 (MUSEO DEL PAESAGGIO DEPOSITO)
39. Tosi Arturo, Le tre betulle, 1923/25, olio su tela, cm 100x120 (MUSEO DEL PAESAGGIO DEPOSITO)
40. Tosi Arturo, Fuori dallo studio, 1928/30, olio su tela, cm 100x120 (MUSEO DEL PAESAGGIO DEPOSITO)
41. Tosi Arturo, Ulivi a Montisola, 1940ca, olio su tela, cm 70x90 (MUSEO DEL PAESAGGIO DEPOSITO)
42. Tosi Arturo, Il piantone, 1935/40, olio su tela, cm 70x90 (MUSEO DEL PAESAGGIO DEPOSITO)
43. Tosi Arturo, Lago di Como, 1923, olio su tela, cm 70x90 (MUSEO DEL PAESAGGIO DEPOSITO)


III. OLTRE IL NOVECENTO


44. De Pisis Filippo, Temporale 1933, olio su tavola, cm 46 x 99 (FONDAZIONE CARIPLO)
45. Lilloni Umberto, Paesaggio di Lavagna 1934, olio su tela, cm 60x70 (FONDAZIONE CARIPLO)
46. Dudreville Leonardo, Case a Feriolo 1945, olio su cartone, cm 20x15 (MUSEO DEL PAESAGGIO)
47. Soffici Ardengo, Veduta serale del Poggio 1952, olio su compensato, cm 42 x 52 (FONDAZIONE CARIPLO)
48. Vernizzi Renato, Paesaggio 1953, olio su tela, cm 70 x 90,5 (FONDAZIONE CARIPLO)
49. Tomea Fiorenzo, Paesaggio cadorino 1954, olio su tela, cm 95 x 140 (FONDAZIONE CARIPLO)
50. Ferraguti Arnaldo, Alla vanga 1890, olio su tela, cm 280x650 (MUSEO DEL PAESAGGIO)
51. Ferraguti Arnaldo, Le lavandaie sul lungolago di Pallanza, olio su tela, cm 178x148 (MUSEO DEL PAESAGGIO)

Ultimo aggiornamento: 24/07/2018 00:00:27
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