TRENTO - E’ la
prima sentenza in Italia riguardante la
nuova disciplina sulle dimissioni per “
fatti concludenti”: se il datore di lavoro sbaglia rischia una condanna alla reintegra ed al risarcimento danni
Una nota società di servizi ha deciso di approfittare della legge appena entrata in vigore sulle dimissioni per fatti concludenti e ha lasciato la propria dipendente, con figli, a casa, senza lavoro e senza il paracadute dell’indennità di disoccupazione. In buona sostanza, per
risparmiare il
ticket Naspi, con grande fretta dopo due giorni dall'entrata in vigore della nuova legge (il 12 gennaio 2025) il datore di lavoro ha comunicato al Servizio Lavoro della Provincia autonoma di Trento le dimissioni tacite per assenza della lavoratrice. Il
Servizio Lavoro è rimasto inerte anche se avrebbe potuto per legge effettuare verifiche sulla veridicità della comunicazione, anche attraverso interlocuzioni con il lavoratore interessato.
La
lavoratrice, però, ha deciso di non subire e, assistita dall’Ufficio Vertenze della
Cgil del
Trentino e dall’avvocato
Giovanni Guarini, ha fatto ricorso in Tribunale ed ha vinto. E’ dei giorni scorsi la pubblicazione delle motivazioni della sentenza: il Tribunale del Lavoro di Trento ha riconosciuto non valido quel licenziamento e ha condannato la società in via prioritaria a reintegrare in servizio la propria dipendente o, in via alternativa, al pagamento di un indennizzo economico pari a cinque mensilità più tutti i contributi previdenziali e le spese legali.

Il
Giudice del lavoro Giorgio Flaim ha contestato alla società l’errata applicazione della legge 203/2025 sulle dimissioni per “fatti concludenti”.
Questa norma consente al datore di lavoro di prendere atto in via automatica delle dimissioni volontarie del proprio dipendente se questi si assenta in modo ingiustificato per un numero di giorni minimo fissato dal contratto nazionale di riferimento e che comunque non può essere inferiore rispetto ai 15 giorni previsti dalla legge. Nel caso in questione i giorni erano tre e il contratto quello del terziario.
Il problema è che alla data di entrata in vigore della norma la lavoratrice risultava assente non solo da meno dei 15 giorni previsti dalla legge, ma addirittura da meno di 3 giorni previsti da contratto nazionale. La società avrebbe dovuto o aspettare o applicare la precedente normativa che prevede la contestazione scritta dell’assenza ingiustificata, applicando al più un provvedimento disciplinare. Cosa che non ha fatto.
E come se non bastasse ha perseverato sulla posizione delle dimissioni volontarie anche quando la lavoratrice ha inviato, per iscritto, la propria disponibilità a rientrare in servizio. Una scelta che in modo inequivocabile contraddiceva le tesi secondo la quale la lavoratrice voleva dimettersi.
Da qui la sentenza del Tribunale, la prima in Italia, relativa alle dimissioni per fatti concludenti.
“La fretta non è mai una buona consigliera. La società avrebbe dovuto cercare un confronto con la propria dipendente. Cosa che non ha fatto, né prima per cercare una possibile mediazione sull’orario di lavoro, né a fronte della sua assenza. Troppe volte si preferisce non ascoltare le lavoratrici e i lavoratori e le loro legittime rivendicazioni, come in questo caso. Questa vicenda deve essere un monito per i datori di lavoro, sin dall'entrata in vigore della legge la Cgil ha manifestato la propria preoccupazione che la procedura di dimissioni per fatti concludenti possa essere utilizzata in modo improprio dai datori di lavoro, ora, ed il primo caso nasce a Trento, sappiamo che se ciò avviene, come nel caso concreto, il lavoratore può ambire alla massima tutela prevista dalla legge: la reintegra”, commenta la Cgil.