È una scintillante giornata d’estate sulla nostra motovedetta Monteleone, sotto le divise si fatica a resistere, verrebbe voglia di farsi una nuotata. Nessuno di noi si aspetta il boato che irrompe dallo scenario magnetico. È un attimo, un rigurgito violento atterrisce il mare, viscere terrestri si rovesciano in fiamme, una valanga di rocce impazzite e di lapilli cola lungo il fianco del vulcano. Il calore si solleva come fiato ardente. Gli yacht parcheggiati nelle calette mettono in moto e si allontanano. Dalla terraferma salgono le urla della gente in fuga che si riversa nel mare, come in una scena biblica. La Centrale ci segnala due turisti dispersi, stavano facendo una escursione sul vulcano, in un’area libera, a Punta dei Corvi. Uno è stato travolto dalla lava, ma l’altro è ancora lassù, raggiungibile solo via mare. Prendo il binocolo ma non vedo altro che fumo, la terra è inaccessibile come un inferno. Dal cielo salutiamo come una benedizione il Canadair della Protezione Civile che fa i suoi giri sopra al fuoco per domare gli incendi scaturiti dai lapilli. Ci tuffiamo in mare sotto una pioggia incandescente. Saliamo lungo una mulattiera, il calore è quello insopportabile di una fornace a cielo aperto. Camminiamo verso il sopravvissuto nella speranza di raggiungerlo prima che sia troppo tardi. È nero come una statua di fumo, ha inalato vapori tossici, è ferito e sotto shock, l’amico gli è morto tra le braccia. Non parla italiano, ma la disperazione è un lamento universale, comprensibile a chiunque. Ascoltiamo quelle parole in portoghese, che sembrano un lamento ancestrale, piange, le labbra disidratate tremano come spugne corrose. Ha il corpo insanguinato, bruciato, sembra il superstite di una guerra, ci guarda e ancora non sembra aver realizzato cosa sia accaduto, continua a ripetere il nome dell’amico. Dobbiamo allontanarci in fretta da quel luogo minaccioso che ancora ribolle. Riusciamo ad imbarcarlo sulla Monteleone e a dargli i primi soccorsi, mentre il Capitano si dirige in una zona più sicura. A bordo il ragazzo sembra riconoscere qualcosa, i nostri volti, alcuni giovani come il suo. Adesso sei in salvo, gli dico, e stavolta la salvezza è arrivata dal mare. Ma anch’io sto pensando al suo amico, a quel corpo carbonizzato che abbiamo lasciato indietro, vorrei chiedergli scusa per non essere riuscito a portare in salvo anche lui.
GIUGNO
Bisognerebbe non farlo, lo so, la partecipazione emotiva non dovrebbe mai oltrepassare la divisa, però è più forte di me, quando si tratta di un reato sessuale, l’indignazione che provo diventa dolore, qualcosa di ancestrale mi scuote, come se in me si sollevasse la ferita di tutte le donne violate. Erano mesi che con i miei colleghi tenevamo sotto controllo quel circolo in provincia di Napoli, frequentato da uomini all’apparenza per bene, un’indagine di routine, sfruttamento della prostituzione, il proprietario era un anziano noto nel giro dei locali notturni. Poi ricevetti la segnalazione di quel ragazzino, mi parlò della sua fidanzatina minorenne, voleva salvarla, negli occhi una sorta di panico. Ero preparata, sapevo a cosa andavo incontro la notte dell’irruzione. Eppure rimasi tramortita quando vidi quei corpi giovani, che si muovevano flebilmente come alghe perse in quel mare notturno e maleodorante, gambe magre come braccia, musi infantili bistrati come maschere. Riconobbi quel sentimento, di morte forse, vedevo con i miei occhi la carie del mondo, l’innocenza uccisa tra posaceneri colmi di cicche. Provai un disgusto, troppo profondo da digerire. Pensai a mia figlia, a quando al mattino si tirava il piumone sulla testa per restarsene nei sogni ancora un po’. Chiusi gli occhi, poi li riaprii. Mi avvicinai a quella che sembrava davvero un uccellino avvilito, Tamara, romena, sedici anni. Non voleva parlare, si guardava intorno come cercando la mano che di lì a poco l’avrebbe uccisa. Le braccia erano ferite, cicatrici di sigarette spente nella carne. Le dissi che non aveva più niente da temere, l’avrei portata in un posto protetto. Non mi credeva, lo sguardo sfacciato e cupo dei bambini traditi. Quando le dissi che ero una mamma, finalmente mi guardò, come se in quel degrado una immagine salvifica fosse tornata a farle visita, vidi una luce, qualcosa di sacrale in quel muso sudicio. Cominciò a raccontarmi di sua madre, era malata, le mandava soldi ogni mese a Timisoara, quei pochi che le lasciavano tenere. Mi chiese una sigaretta, le risposi di no, come avrei fatto con mia figlia. Sei troppo piccola per fumare, era davvero assurdo negarle una sigaretta in quella fogna, ma mi venne spontaneo farlo. Accettò quel rifiuto con un sorriso triste, che nascondeva un pensiero docile. Grazie mamma, disse. Ci allontanammo tenendoci per mano.
LUGLIO
In verità, chi ci pensava più a quel corso di pronto intervento, a quel bambolotto simulatore, a quelle manovre, non ricordavo nemmeno di averlo fatto. Era un pomeriggio di svago, senza divisa, camminavo in jeans accanto a mia moglie in un centro commerciale. Le urla arrivarono inaspettate, sembrava il rantolo di un animale ferito a morte. Mia moglie lo sa, mi prende in giro, sei sempre in servizio, dice, non ti rilassi mai, osservi il mondo come se dovessi sempre stanare un pericolo. Salto la folla, mi abbasso sul marciapiede, sotto una vetrina di televisori accesi, un bambino giace inerte, sembra piccolissimo. Le urla sono quelle della madre, quelle di una bestia scuoiata. Il figlio improvvisamente ha smesso di respirare dopo una crisi di pianto. Il corpo è piccolo, come farò a trovare il cuore? Ma non penso, agisco. Uno, due, tre, comincio a praticare il massaggio cardiaco, non sono sicuro di ricordare. Invece ricordo, sono al parossismo, la calma è impossibile eppure è necessaria. Le costole sembrano paglia di un cestino. La folla è dietro di me, compresa mia moglie che vorrebbe fuggire per non vedere quella scena. Non ce la farò, penso, non ce la sto facendo. Devo farcela. Urlo a qualcuno di chiamare il 118 mentre mi avvicino alla bocca, stringo le narici, insufflo l’aria, come ho fatto con il bambolotto simulatore. La bocca è calda e il bambino è sudato. Sono teso, concentrato, il panico mi guida senza distrazioni, dalla bocca al cuore, alternando le due pratiche vitali. Mi hanno detto che è durato pochi minuti, io credo di aver vissuto in quei pochi minuti un tempo più esteso di una vita, ho visto molte cose, mi sono sentito solo al mondo, abbandonato da tutto e tutti, solo con quel bambino. Francesco si chiama, mi sono rialzato, ho sentito il vecchio rumore dei legamenti rotti durante un’esercitazione, ho detto sono io, sono le mie ginocchia, potrò raccontare questa storia infinite volte, tremando di felicità, intorno il mondo era un po’ sfuocato e ci ho messo un po’ per tornare presente.
AGOSTO
Non capita spesso il privilegio di poter andare in ricognizione a piedi, tra una comunità tranquilla che ti saluta con affetto, ma Sant’Ilario d’Enza è un piccolo paese dove le giornate seguono una pacifica routine. Quel mattino di maggio restammo sconcertati, quando sentimmo un lamento strozzato che sembrava giungere dal cielo. Sulle prime pensai al grido di un uccello. Fu il collega ad indicarmi la donna anziana in alto, aveva scavalcato il balcone delle propria casa, i piedi scalzi, un solo braccio aggrappato alla ringhiera. Un’immagine dolorosa, davvero inaspettata in quel contesto mite. Signora come sta? Come si chiama? Dal basso non sembra udirci, il balcone è quello dell’ultimo piano, la donna è confusa, forse un po’ sorda. Il portone per fortuna è aperto. Saliamo le scale di corsa, saltando a mucchi i gradini. Sul pianerottolo una donnina minuta agita le braccia, ci indica la casa dell’aspirante suicida. Con noi in servizio c’è Mario, il sorriso di un bambino, le spalle di un lottatore. È con quelle che sradica la porta. L’odore di un’intimità scoperchiata, un gatto che dorme sul divano. È un tentativo di salvataggio delicatissimo. Bisogna scivolare in silenzio, si pattina sulla crepatura sottile di un’emotività che potrebbe rompersi davanti alle nostre divise. I singhiozzi della donna sono strazianti come se avesse raggiunto un apice troppo difficile da sostenere. Il nostro brigadiere più anziano ha qualche chilo di troppo, ma in servizio può diventare una piuma, una leggerezza che gli deriva dal convincimento della propria funzione, credo. È lui che avanza soffice, afferra la donna di spalle, la cinge di colpo con entrambe le braccia e la tiene salda a sé. Lei si agita un po’, sembra una gallina spiumata, ma è solo forza residua, si accascia sfinita. Forse alla fine non voleva altro che essere salvata e tenuta stretta. Il brigadiere la tiene in braccio come una sposa e lei si lascia riportare dentro con una certa solennità. Resta sul divano accanto al gatto, ci chiede scusa infinite volte, dice che si vergogna tanto, che è stato solo un momento. Le strofino una gamba come faccio con mia madre in ospedale. Gli anziani hanno bisogno di parlare, il silenzio logora, quei pensieri reiterati nella testa che nessuno ascolta. Ho studiato psicologia prima di entrare nell’Arma, forse so fare le domande giuste, ma soprattutto so ascoltare. La signora parla, racconta la sua vita triste, è sola, è malata, la pensione non basta per sentirsi decente. Mario, è alto quasi due metri, si abbassa, un armadio che diventa un comodino, stringe quel sacchetto d’ossa con un trasporto infantile. Figlio mio, figlio mio…
SETTEMBRE
In clausura in quella stanza con le tapparelle tirate giù, non era certo un bel lavoro, mi sentivo la febbre addosso fissa, brividi che si infilavano sotto gli abiti. Fissa lì davanti ai monitor, quelle scatole luminose accese in contemporanea, gli occhi che vagano da uno schermo all’altro. Ti alzi per sgranchirti le gambe, quando qualcosa di colpo si muove. Di colpo ti siedi, con quel fremito, un dolore al basso ventre, come un trauma residuo che si risveglia. Hai bisogno di vedere qualcosa per poter intervenire, ma dentro di te preghi che nulla accada. Sei costretta a sorbire quei monitor che ti mettono a disagio, devi oscurare una parte di te. Anche tuo figlio è andato all’asilo, ha avuto delle maestre eccezionali, te ne ricordi una, calda e profumata come una pagnotta di pane appena sfornata. C’è una donna che le somiglia, si muove in quei monitor assieme alle altre. È lei che colpisce, una manata su un volto molto più piccolo della sua mano, la stessa mano che afferra la testa per i capelli, la scuote, la trascina. Basta così, i monitor hanno registrato. Siamo già in macchina, facciamo irruzione nella scuola, entriamo nella classe, e adesso i bambini, quei puntini nel monitor, sono lì, più o meno nella stessa posizione, con i loro golfini colorati, il loro moccio. Uno scenario presente e vivo. Le maestre non sembrano nemmeno rendersi conto della gravità delle loro azioni, hanno volti strani, come animali abbagliati dai fari di un’auto. Non abbiamo fatto nulla, vogliamo bene ai bambini. I bambini guardano curiosi le nostre divise. Il mio collega si avvicina al bambino che ha subito l’assalto, se ne sta lì piegato, la testa reclinata come un fiore moscio su un gambo. Ciao amore, come stai? Mi fai vedere il disegno? Bravo, che bello. Lo prende in braccio, lo solleva, non pesa nulla. I nostri occhi s’incontrano, lui annuisce, io annuisco, le difese sono crollate. Ci sbrighiamo a ricacciare indietro le lacrime prima che si vedano, è un comando muto che ci diamo vicendevolmente. I monitor nella sala operativa sono spenti, attendo il momento in cui si riaccenderanno, quando dovrò ancora una volta restare seduta al mio posto. Ma stasera sono serena mentre prendo il cappotto, saluto i colleghi e torno a casa dalla mia famiglia.
OTTOBRE
Era dicembre, sul lungomare di Rimini erano già state montate le luminarie, oltre trenta chilometri di superficie coperta di luci. Alla Centrale Operativa arriva una chiamata, una voce maschile trafelata: sto provando a chiamare mio padre da diverse ore, ma non risponde, è disabile, fermo in un letto. L’uomo è lontano da Rimini per lavoro, ha un problema alla macchina, sembra disperato. La catena di comando si mette subito in azione, l’intervento è affidato alla nostra pattuglia. Il comandante ci raccomanda di fare in fretta. Il quartiere di Viserba è piuttosto lontano, le strade formicolano di traffico, sono tutti in giro per fare acquisti. Nella nostra pattuglia è sceso quello speciale silenzio, un’allerta interiore che ci tiene concentrati e sospesi: una vita in pericolo, una delle tante, ma per noi in quel momento è l’unica da raggiungere. Suoniamo inutilmente il campanello, dall’interno nessun rumore, usiamo le spalle per buttare giù la porta. Una casa modesta e ordinata, un odore stagnante di sudore e medicinali. Il letto è vuoto, l’uomo è sul pavimento, immobile, il supporto della flebo rovesciato, sanguina dalla testa. Gli prendo una mano, sento il polso vivo, il mio collega si inginocchia accanto a me, gli carezza la schiena, gli sistema il pigiama sollevato su una piaga. Giuseppe siamo qui, ci senti? La testa insanguinata annuisce flebilmente. Lo solleviamo molto lentamente per non procurargli altri traumi. Stai tranquillo Giuseppe, non è niente. Lo stendiamo sul letto. Ecco fatto Giuseppe, tutto a posto. Si vergogna, sembra quasi chiederci scusa con gli occhi. Gli tengo una mano, guardo le vene scure, tribolate. Una mano antica. Sul comò lì davanti, un uomo e una donna giovani nella cornice di un matrimonio lontano. È tua moglie? Che bella coppia. Mi dice che è vedovo da molti anni, gli chiedo qualcosa della sua vita, voglio sentirlo parlare, voglio mantenerlo cosciente in attesa del 118, trema e il respiro è affannato. Ci ha chiamato tuo figlio, ti vuole tanto bene. Giuseppe ci guarda, cerca conferma nei nostri occhi, annuisce commosso. Arriva il soccorso medico, lo lasciamo ai sanitari. Non vorrebbe più lasciarmi la mano. Grazie figlio mio, sussurra. Fatico a staccarmi da quel letto. Da anni non sono più un figlio, mio padre non l’ho visto invecchiare. Era un uomo grande, allegro, se n’è andato quando ero ancora un bambino, gli hanno sparato a un posto di blocco. Ho preso la sua divisa, la sua impronta, ho preso parte del suo cuore, almeno così dicono.
NOVEMBRE
Resta il fatto che per noi della Stazione di Incisa Giovan Battista Scapaccino, caduto a trentadue anni per quel senso estremo del dovere che forse apparteneva a un’epoca antecedente, rappresenta un ideale ancora vivo. Ci sentiamo sollecitati davanti a ogni vita umana in difficoltà, così quando arrivò quella telefonata, che non ci segnalava reati, bensì il disagio di un’anziana, andai comunque di persona a verificare. La donna non usciva più di casa da mesi e tra quelle pareti anguste regnava la trascuratezza. Eppure era stata una donna attiva, vigorosa, una presenza storica della nostra comunità. Si guardava intorno smarrita, non mi voleva lì, come se io avessi interrotto qualcosa nel precipizio della sua solitudine. Forse provava vergogna. Quell’abbandono era la rappresentazione visibile della sofferenza psichica che la teneva prigioniera. Le dissi che non ero lì per giudicare, ma soltanto per aiutarla. Faticai, non si fidava più del mondo. Infine cominciò a parlare, con una voce che pareva uscita da un pozzo. La morte del marito, la tristezza che l’aveva seppellita viva in quella inettitudine di continuare a fare anche i gesti più semplici. Convocai in caserma i parenti più prossimi, feci loro una doverosa strigliata. La signora aveva urgenza di cure mediche e bisognava subito mettere mano a quella casa fatiscente: finché fosse vissuta in quelle condizioni, non avrebbe mai ritrovato lo spirito per ristabilirsi dal deperimento. Con una scusa riuscii a far allontanare la donna per qualche giorno, il tempo necessario per ripulire quell’alloggio indecoroso. La mattina in cui la riaccompagnai a casa, la signora varcò la soglia e camminò quasi in punta di piedi: era strabiliata, respirava l’odore della vernice fresca, guardava quelle stanze rinnovate come se non credesse ai suoi stessi occhi. Adesso comincia una nuova vita per te, dissi. È una reggia, sussurrò. Annuiva, fiera della sua casa che adesso riconosceva, come forse riconosceva se stessa dopo tanta deprivazione. Mi sembrò che quella pulizia si fosse portata via anche tanti brutti ricordi. La signora mi strinse con mani ossute e vitali. Adesso mi sento davvero una regina, Maresciallo. Mi avete restituito qualcosa di grande, qualcosa che avevo nel petto, ma che avevo perduto, come una collana di perle che si rompe e i grani se ne vanno dappertutto. Parlava della dignità, che rappresenta il fondamento della condizione umana, quel rispetto che ognuno deve avere verso se stesso, ma che non sempre è possibile. Noi lavoriamo anche per questo.
DICEMBRE
Indelebilmente ricordo quei giorni, il terremoto solleva un sentimento antico, panico, una memoria che appartiene a tutti, perché tutti apparteniamo a questa terra posata su un costato fragile. Spesso restavamo in silenzio nel nostro ufficio arrangiato per l’emergenza in quel capannone di Città Ducale, un luogo che era diventato una specie di mensa delle anime, un centro di aggregazione per i cittadini superstiti. Accompagnavamo gli sfollati davanti alle loro case. I più fortunati riuscivano a recuperare qualcosa, gli altri guardavano soltanto le macerie, annuivano come per convincersi che fosse davvero accaduto. Cessate le sirene delle ambulanze, a noi toccava l’azione dolorosa del rinvenimento della memoria, le divise impolverate dalla calce degli edifici andati giù, i berretti tolti per asciugare il sudore in quell’avvilimento. Una mattina ci venne a far visita un uomo, il passo delicato di un’ombra. Piangeva la moglie con lacrime grosse come biglie. Era morta di malattia, nel suo letto, poco prima del terremoto, ed egli quasi sorrideva, perché almeno non le era toccato lo sconquasso. Ci disse che era una pittrice, dipingeva quello che aveva nell’anima, i colori le avevano fatto compagnia fino alla fine dei suoi giorni. Lui era rimasto solo con tutti quei quadri, un testamento artistico che aveva voluto rendere pubblico per far conoscere ai conterranei il senso intrinseco di quel passaggio sulla terra. Con tanta volontà, era finalmente riuscito ad allestire una mostra al Museo Civico di Amatrice, ed ecco che in quella notte d’agosto tutto era finito. Avevamo compiti più gravi, però quel racconto ci commosse. Scavammo in quello che restava del museo. Dopo quasi due settimane riuscimmo a salvare buona parte delle opere. Le portammo nel nostro capannone, e allestimmo una specie di mostra lì. Le persone che entravano si fermavano davanti a quelle tele in rispettoso silenzio, guardavano quei volti, quei paesaggi dipinti che forse non esistevano più. Non scorderò mai il volto segnato di quel vedovo che sfiorava le tele, come se toccasse il corpo stesso della moglie e ci benediva quasi avessimo compiuto un miracolo. Queste tele senza dubbio valgono poco nel mercato dell’Arte, ci disse, ma adesso che le guardo, e penso alla fatica che avete compiuto, senza alcuna ragione, se non quella del cuore, io vedo un grande capolavoro di umanità.
Margaret Mazzantini
Testo Calendarietto.
Il servizio di prossimità dei Carabinieri nelle principali piazze e mercati italiani
Nell’antica Grecia con il termine Agorà era indicata la piazza centrale della “polis”, la città. La piazza era il centro vitale, il luogo dove avvenivano gli scambi culturali ma anche economici. Per questo la piazza e il mercato sono spesso stati uno spazio unico e hanno rappresentato l’ambiente che ha permesso lo sviluppo della socialità dell'uomo.
La piazza è il gioiello urbanistico di qualsiasi architetto, lo spazio che ha fatto da cornice e da culla alla nascita della democrazia e che ancora oggi è un elemento centrale della vita sociale delle persone.
I mercati, con la loro pluralità di persone, la moltitudine di colori e la spontanea umanità, sono forse la manifestazione più intensa e semplice della tensione all’aggregazione ed alla libertà degli uomini.
È la consapevolezza della necessità di preservare il valore assoluto di questi luoghi di scambio di pensieri e di crescita delle identità collettive che muove i Carabinieri ad esserci, perché l’appartenenza è legalità e il contatto con la gente è sicurezza
Testo Planning.
La Banda Musicale dell’Arma dei Carabinieri: 100 Anni di Musica
L’impegno bandistico italiano è una tradizione centenaria, figlio della più profonda e raffinata cultura popolare del Paese che ha contribuito alla diffusione della migliore musica operistica in un mondo dove la radio ancora non esisteva e le bande rappresentavano il fulcro della divulgazione musicale.
La Banda dei Carabinieri con il suo imponente organico di 102 Maestri di musica, tutti diplomati al conservatorio, capaci di coniugare la passione e l’amore per l’arte e lo spirito di servizio di ogni carabiniere, è il fiore all’occhiello di uno straordinario patrimonio bandistico italiano. Esprime un binomio di rigore e passione che colpisce, travolge e coinvolge, sensi e sentimenti. Un impatto visivo e uditivo che lascia lo spettatore senza fiato. Colpito dalla maestosità e dalla regalità di uno schieramento ordinato di uniformi impeccabili ed esecuzioni avvincenti e appassionate.
Oggi, attraverso la Banda dei Carabinieri, quella straordinaria ricchezza di arte, cultura e passione è stata elevata al rango di sublime espressione concertistica. Con le sue pubbliche esecuzioni nelle piazze, nei teatri o nelle scuole, è ancora protagonista indiscussa di rappresentazioni musicali e al tempo stesso elegante e raffinata cornice delle più importanti cerimonie e manifestazioni militari.
Ovunque vada, lascia il pubblico sbalordito, tocca con leggerezza ma in profondità il cuore e lo spirito, prende in prestito attenzione e interesse per restituire anche allo spettatore più esigente sentimenti rinnovati e appagati dopo ogni esecuzione.
Il suo repertorio è vastissimo, capace di spaziare dai brani del folclore popolare alle arie più note della celeberrima cultura operistica italiana. Si è cimentata anche nella musica contemporanea e nel migliore repertorio jazzistico mondiale, ma il suo riferimento rimane la tradizione musicale militare italiana ed internazionale, in cui è riconosciuta eccellenza e punto di riferimento. La Banda è un pezzo autentico e di pregio di quell’Italia fatta di valori, tradizioni e cultura che con le sue note oltrepassa i confini per diventare ambasciatrice dell’eccellenza del Paese nel mondo.
Questa è la Banda e questi sono i Carabinieri.