Le opere, raccolte dopo un lungo e accurato lavoro di ricerca, sono in taluni casi inedite e condivise per la prima volta con il grande pubblico, grazie alla generosità dei collezionisti, come il Gruppo del Brenta di Luigi Ratini o il trittico dell’inaugurazione della Funivia di Fai della Paganella di Davide Campestrini, infrastruttura collaudata da Umberto Nobile, oppure accora il Tramonto sulla Zillertal di Giulio Cesare Prati.
Altri lavori sono stati strappati all’oblio e restituiti alla comunità, come i due busti in gesso di Fozzer “scoperti per caso” dallo stesso Parolini e da Riccardo Decarli nella Biblioteca della Sat e restaurati appositamente per questa mostra grazie alla collaborazione con la Soprintendenza di Trento, due opere dedicate dal noto scultore trentino alla memoria di Adriano Dallago, morto sulla Marmolada nel 1938.
Alcuni profili alpini, grazie alla collaborazione con gli esperti di montagna della Sat, hanno trovato finalmente una corrispondenza “geografica”, come il Gruppo del Sassolungo visto dal Passo Pordoi di Moggioli, fino ad oggi “senza titolo”, oppure il lago di Molveno di Angelico Dallabrida, oppure il dipinto dei laghi dei Piani nelle Dolomiti di Sesto di Augusto Tommasini, che erroneamente si pensava rappresentasse il lago di Braies.
Ma accanto alle montagne e ai paesaggi alpini, ci sono opere che, con diverse tecniche e soggetti, si ispirano al lavoro in montagna. Come i ritratti delle guide alpine di Gianfranco Campestrini, di Cesarina Seppi e di Remo Wolf. Oppure il falciatore di Cesare Ernesto Campestrini, l’arrotino di Mariano Fracalossi, le raccoglitrici di patate di Guido Polo o il carradore della Val Fersina di Tullio Garbari. Non mancano le feste in campagna fissate nell’omonimo dipinto di Carlo Sartori o le tradizioni del Carnevale mocheno interpretate da Pietro Verdini nel suo originalissimo stile. Le acqueforti di Dario Wolf, lontane dalla rappresentazione del paesaggio sentimentale e romantica, dipingono la montagna come mito, ma insieme comunicano il senso di pericolo e di timore che spesso l’accompagna.
Come sineddochi, il fagotto iperrealista di Gianluigi Rocca, il tronco d’albero di Paolo Vallorz, le pareti rocciose di Bruno Colorio, ci trasportano immediatamente in un rifugio alpino, ai bordi di un sentiero o in un bosco ferito. Così come il portale in legno di Giuliano Orsingher ridona dignità d’arte ad un albero sottratto all’orrore di Vaia. Nella cura dell’allestimento Parolini ha seguito un percorso in parte cronologico, in parte tematico, senza trascurare negli accostamenti le affinità di forme e i toni di colore delle opere.
Trovano in questa mostra una collocazione perfetta e tematicamente coerente gli altorilievi sulla storia dell’autonomia di Othmar Wikler, che fanno parte della collezione permanente di Palazzo Trentini. Infine, la rassegna non dimentica i 100 anni dalla nascita di Giuseppe Sebesta, fondatore del Museo degli usi e costumi della gente trentina, figura eclettica, artista, cineasta, etnografo e museografo trentino e boemo che in diverse forme contribuì ad accrescere la consapevolezza pubblica sui valori della cultura alpina. Una sezione speciale della mostra curata dai ricercatori del “suo” museo è dedicata ai suoi studi, alle pubblicazioni, ai video e ai suoi coloratissimi pupazzi ambientati tra le montagne.
Accompagna la rassegna un catalogo a colori, completo delle foto di tutte le opere esposte e con i contributi di Massimo Parolini e i due saggi di Giovanni Kezich e Roberto Pancheri che riflettono sull’idea di alpinità moderna e sul concetto di sublime, in cui le Alpi finiscono per rappresentare l’orrido per diventare protagoniste.
Hanno fatto da cornice all’inaugurazione i cori Gianferrari ed Emeralda diretti dal giovanissimo maestro Michele Weiss. La mostra è visitabile a Palazzo Trentini fino al 7 febbraio prossimo. Dal lunedì al venerdì e la mattina del sabato.